lunedì 17 ottobre 2011

Inedito della WARD : Capitolo 9° e 10° di Father Mine


CAPITOLO 9°

Il dottor Thomas Wolcott Franklin III aveva il secondo miglior
ufficio nel complesso dell’ospedale St. Francis.
Quando si parlava di qualità degli spazi amministrativi, l’ordine
di scelta era determinato dalle tue entrate e, come capo del reparto
di dermatologia, T.W. era dietro solo al capo di un altro reparto.
Naturalmente, il fatto che il suo reparto fosse fonte di tanti
guadagni era perché lui si era “venduto”, come qualche
accademico di vecchio stampo sosteneva. Sotto la sua guida,
dermatologia non si occupava solo di lesioni, cancro, ustioni, oltre
a condizioni croniche come la psoriasi, l’eczema e l’acne, ma
c’era un intero sotto reparto che si occupava solo di procedure
cosmetiche.
Lifting facciali. Rughe. Protesi al seno. Liposuzioni. Botox.
Trattamenti con l’acido ialuronico. E altri cento miglioramenti. Il
modello sanitario era servizio di clinica privata in una struttura
accademica, e i clienti benestanti amavano l’idea. La maggior
parte arrivavano dalla Grande Mela, all’inizio per l’anonimato di
ottenere trattamenti di prima classe lontani dalla comunità chiusa
della chirurgia plastica di Manhattan, ma poi, perversamente,
perché era diventato uno status symbol. Farsi fare il “lavoro” a
Caldwell era la cosa chic da fare, e grazie a quella moda, solo il
capo del reparto di chirurgia, Manny Manello, aveva una vista
migliore dall’ufficio.
Beh, il bagno privato di Manello aveva anche il marmo nella
doccia, non solo sui ripiani e alle pareti, ma davvero, chi teneva il
conto.
A T.W. piaceva la sua vista. Gli piaceva il suo ufficio. Amava il
suo lavoro.
Una buona cosa, visto che le sue giornate cominciavano alle sette
e finivano a…controllò l’orologio…quasi le sette.
Quella sera, però, avrebbe già dovuto essere fuori di lì. T.W.
aveva una partita di racquetball ogni lunedì sera alle sette al
Country Club di Caldwell…quindi era un po’ confuso sul perché
avesse accettato di vedere un paziente proprio a quell’ora. In
qualche modo aveva detto sì e aveva fatto cercare alla sua
segretaria un rimpiazzo per la partita, ma per quanto ci provasse
non riusciva a ricordare il perché o il percome di tutta la faccenda.
Prese l’orario stampato dal taschino del camice bianco e scosse
la testa. Proprio accanto alle sette c’era il nome B. Nalla e le
parole cosmesi con il laser. Cavolo, non aveva il minimo ricordo
di come l’appuntamento era stato preso o chi era stato o da chi era
stato mandato…ma niente finiva sul tabulato del suo orario senza
il suo permesso.
Quindi doveva essere qualcuno importante. O il paziente di
qualcuno importante.
Era chiaro che stava lavorando troppo.
T.W. si inserì nel sistema di archivio medico informatico e fece
una ricerca, di nuovo, per tale B. Nalla. La cosa più vicina che

trovò fu Belinda Nalda. Un errore di battitura? Poteva essere. Ma
la sua assistente aveva lasciato l’ufficio alle sei e sembrava
scortese interromperla mentre cenava con la famiglia solo per un
che diavolo è questo?
Si alzò, controllò la cravatta e abbottonò il camice bianco, poi
prese su del lavoro da revisionare mentre aspettava al piano di
sotto che B. Nalla arrivasse.
Mentre usciva dall’ultimo piano del dipartimento dove erano gli
uffici e le sale di trattamento, pensò alla differenza che c’era tra
quel posto e la clinica privata al piano di sotto. Giorno e notte. Qui
il decoro era tipo ospedale non chic: moquette scura a pelo corto,
pareti color crema, tante porte dello stesso colore. Le stampe
appese alle pareti avevano cornici d’acciaio e le piante erano
poche e distanziate.
Di sotto? Centro estetico di prim’ordine con tanto di sevizio in
camera del tipo lussuoso che i molto ricchi si aspettano: le camere
avevano schermi al plasma, dvd, divani, poltrone, piccoli
frigoriferi pieni di rari succhi di frutta, cibo che poteva essere
ordinato dai ristoranti, e connessioni wireless per i portatili. La
clinica aveva anche una convenzione con il Stillwell Hotel di
Caldwell, la grande signora dell’ospitalità a cinque stelle nel nord
dello stato di New York, così i pazienti potevano riposare dopo
aver ricevuto i trattamenti.
Esagerato? Sì. E c’era un sovrapprezzo? Assolutamente. Ma la
realtà era che i rimborsi dallo stato federale erano al minimo, gli
assicuratori negavano le necessarie procedure mediche a destra e a
manca, e T.W. aveva bisogno di fondi per portare avanti la sua
missione.
Fornire servizi ai ricchi era la strada giusta.
T.W. aveva due regole per i dottori e le infermiere che
lavoravano per lui. Uno, offrire il miglior trattamento sul pianeta

con mano compassionevole. E due, mai mandare via un paziente.
Mai. Specie le vittime di ustioni.
Non importava quanto lungo o costoso fosse il trattamento per
una ustione, non diceva mai di no. Specie se si trattava di bambini.
E se era visto come un venduto alle richieste commerciali? Bene.
Nessun problema. Non dava grande importanza a quello che
faceva dal lato frivolo delle cose, e se i suoi colleghi nelle altre
città volevano dipingerlo come un succhia soldi, lo avrebbe
accettato.
Quando arrivò agli ascensori, allungò la mano sinistra, quella con
le cicatrici, quella a cui mancava il mignolo e aveva la pelle
chiazzata, e premette il bottone per scendere.
Avrebbe fatto qualunque cosa fosse necessaria per assicurarsi
che la gente ricevesse l’aiuto di cui avevano bisogno. Qualcuno
l’aveva fatto per lui, e aveva fatto tutta la differenza del mondo
nella sua vita.
Giù al primo piano svoltò a destra e camminò lungo il corridoio
fino all’entrata con la porta di mogano della clinica cosmetica.
Con un’insegna discreta inserita nel vetro c’erano il suo nome e
quello di altri sette colleghi. Non si faceva menzione di quale tipo
di trattamenti si praticassero all’interno.
I pazienti gli avevano detto che adoravano la sensazione da club
esclusivo, riservato ai soli membri.
Usando un pass, entrò. L’accettazione era in penombra, e non
perché le luci erano state spente al termine dell’orario di
ricevimento. Le luci brillanti non erano la cosa migliore per la
gente di una certa età, prima o dopo le operazioni, e comunque,
l’atmosfera calma e rilassante faceva parte dell’ambiente da centro
estetico che avevano cercato di creare. Il pavimento aveva
piastrelle di arenaria, le pareti erano di un confortevole rosso
scuro, e una fontana fatta di rocce di colori chiari gorgogliava al
centro della stanza.
“Marcia?” chiamò, pronunciando il nome Mar-si-a, alla moda
europea.
“Salve, Dottor Franklin,” giunse una voce suadente dal retro
dove si trovava l’ufficio.
Quando Marcia apparve. T.W. infilò la mano sinistra in tasca.
Come al solito, sembrava uscita da Vogue
con i capelli neri ben

pettinati e il completo nero d’alta sartoria.
“Il suo paziente non è ancora qui,” disse con un sorriso sereno.
“Ma ho approntato la seconda sala laser per lei.”
Marcia era una perfetta quarantenne ritoccata, sposata a uno dei
chirurghi estetici, ed era, almeno per quanto ne sapesse T.W.,
l’unica donna sul pianeta a parte Ava Gardner che potesse
permettersi di usare il rossetto rosso sangue e mostrare classe. Il
suo guardaroba era Chanel, ed era stata assunta e ben pagata per
essere una pubblicità vivente al lavoro straordinario del personale
della clinica.
E il fatto che sfoggiasse un aristocratico accento francese era un
di più. Specie con i nuovi ricchi.
“Grazie,” disse T.W. “Speriamo che il paziente arrivi presto così
potrai andartene.”
“Quindi non ha bisogno di un assistente, no?”
Quella era l’altra cosa grandiosa di Marcia. Non era solo
decorativa, era utile, un’infermiera professionale che era sempre
felice di assistere.
“Apprezzo l’offerta, ma manda solo dentro il paziente e mi
occuperò io di tutto.”
“Anche la registrazione?”
T.W. sorrise. “Sono sicuro che vuoi tornartene a casa da
Phillippe.”

“Ah, oui. È il nostro anniversario.”
T.W. le fece l’occhiolino. “Ho sentito una cosa del genere.”
La guance di Marcia arrossirono un po’, una delle cose graziose

della donna. Avrà avuto classe ma era anche vera. “Mio marito,
dice di incontrarlo all’ingresso. Dice di avere una sorpresa per sua
moglie.”
“So di cosa si tratta. Lo adorerai.” Ma a quale donna non
sarebbero piaciuti un paio di brillanti di Harry Winston?
Marcia si portò una mano davanti alla bocca, nascondendo il
sorriso e l’improvviso nervosismo. “È troppo buono con me.”
T.W. sentì un momentaneo disagio, chiedendosi quando era stata
l’ultima volta che aveva comprato qualcosa di frivolo e alla moda

per sua moglie. Era stato…beh, le aveva preso la Volvo l’anno
prima.
Wow.
“Te lo meriti,” disse con voce roca, pensando per qualche
ragione a tutte le volte che sua moglie cenava da sola. “Quindi per
favore va a casa e festeggia.”
“Lo farò, Dottore. Merci mille fois.” Marcia fece un inchino e
andò verso il banco dell’accettazione, che non era altro che un
tavolo d’antiquariato con un telefono nascosto in una cassetto
laterale e un portatile a cui si accedeva aprendo un pannello di
mogano. “Mi sconnetto solo dal sistema e aspetto il paziente.”
“Buona serata.”
Mentre si girava e lasciava Marcia alla sua eccitazione, T.W.
sfilò dalla tasca la mano rovinata. Gliela nascondeva sempre, forse
un riflesso che gli aveva lasciato un adolescenza passata con la
dannata cosa. Era talmente ridicolo. Era felicemente sposato e non
provava attrazione per Marcia, quindi non avrebbe dovuto avere la
minima importanza. Le cicatrici, pensò, lasciano ferite dentro, e
come la pelle che non guarisce bene, anche l’individuo sente il
dolore di tanto in tanto.
I tre laser nella clinica erano usati per il trattamento di vene
varicose sulle gambe, voglie color vino, imperfezioni del derma,
così come per trattamenti superficiali per il viso, e la rimozione
dei tatuaggi guida nei pazienti oncologici che subiscono le
radiazioni.
B. Nalla avrebbe potuto aver bisogno di una qualsiasi di quelle
cose, ma se fosse stato uno scommettitore, avrebbe detto cosmesi

del viso. Sembrava appropriato…per l’ora, nella clinica, con un
nome misterioso. Senza dubbio un altro dei grandi ricchi, con un
bisogno paralizzante di acquistare sicurezza.
Ma comunque bisognava rispettare le macchine per far soldi.
Entrando nella seconda sala laser, che era la sua preferita per
nessuna ragione in particolare, T.W. si sedette dietro la scrivania
di mogano e accese il computer, riguardando le cartelle dei
pazienti che sarebbero venuti la mattina successiva e poi
focalizzandosi sulle schede dermatologiche che aveva portato con
sé.
Mentre i minuti passavano, cominciò a irritarsi con questi ricchi
e le loro richieste e l’autocompiaciuta visione del loro posto nel
mondo. Certo…alcuni erano a posto, e tutti l’aiutavano a portare
avanti il suo lavoro, ma cavolo, qualche volta desiderava fargli
sputare la boria…
Una donna alta almeno un metro e ottanta era in piedi sulla
soglia della sala visite, e T.W. si immobilizzò. Quello che
indossava era semplice, solo una camicia bianca infilata in un paio
di blue jeans stretti, ma ai piedi aveva un paio di Christian
Louboutin dalla suola rossa e una borsa di Prada al braccio.
Era esattamente il suo tipo di clientela privata, e non solo perché
aveva addosso almeno tre mila dollari in accessori. Era…bella in
modo indescrivibile, con capelli castano scuro, occhi color zaffiro
e un viso del tipo che le altre donne subivano operazioni
chirurgiche per poter ottenere.
T.W. si alzò lentamente, infilando la mano sinistra in tasca.
“Belinda? Belinda Nalda?”

Diversamente da tante altre donne della sua classe, che era
chiaramente stratosferica, questa non entrò come se il posto le
appartenesse. Fece solo un passo oltre la soglia.
“Veramente, è Bella.” Quella voce faceva venire voglia ai suoi
occhi di rigirarsi all’indietro. Profonda, roca…ma gentile.
“Io, ah…” T.W. si schiarì la gola. “Sono il Dottor Franklin.”
Le porse la mano buona e lei la prese. Mentre si stringevano la
mano T.W. era consapevole di fissarla, ma non poteva evitarlo.
Aveva visto tante belle donne in vita sua, ma nessuna come lei.
Era quasi come se provenisse da un altro pianeta.
“Per favore…per favore entri e si accomodi.” T.W. indicò la
poltrona foderata di seta accanto alla scrivania. “Abbiamo ricevuto
la sua storia e …”
“Non sono io a dover essere curata. Mio hell…marito lo è.”
Prese un profondo respiro e si guardò alle spalle. “Tesoro?”
T.W. si tirò indietro goffamente e andò a sbattere contro il muro
così forte che l’acquerello accanto alla sua testa sobbalzò. Il suo

primo pensiero mentre guardava quello che era entrato fu che
forse avrebbe dovuto avvicinarsi al telefono così poteva chiamare
la sicurezza.
L’uomo aveva cicatrici sul viso e occhi neri da serial killer, e
quando entrò, riempì la stanza. Era grande e grosso abbastanza per
qualificarsi come peso massimo, o forse come due messi insieme,
ma Cristo, quello era l’ultimo dei tuoi problemi quando ti fissava.
Era morto entro. Assolutamente privo di affetto. Il che lo rendeva
capace di qualunque cosa.
E T.W. avrebbe giurato che la temperatura della stanza era
davvero calata nel momento in cui l’uomo si posizionò accanto
alla moglie.
La donna parlò in modo calmo e tranquillo. “Siamo qui per
vedere se i suoi tatuaggi possono essere rimossi.”
T.W. deglutì e si disse di darsi una calmata. Okay, forse quel
delinquente era solo una normale star del punk rock. I gusti

musicali di T.W. andavano più verso il jazz, quindi non c’era
ragione per cui dovesse riconoscere quel tipo in pantaloni di pelle,
dolce vita nera e piercing all’orecchio, ma poteva spiegare tante
cose. Incluso perché la moglie fosse bellissima tipo modella. La
maggior parte dei cantanti avevano belle donne, non è vero?
Sì…l’unico problema con quella teoria era lo sguardo negli occhi
neri. Quella non era una maschera da duro, fabbricata a tavolino,
fatta per vendere di più. C’era vera violenza lì. Vera depravazione.
“Dottore?” disse la donna. “C’è qualche problema?”
T.W. deglutì di nuovo, desiderando di non aver detto a Marcia di
andarsene. Ma poi, donne e bambini e tutta quella roba.

Probabilmente era più sicuro per lei non essere lì.
“Dottore?”
Continuò a guardare il tipo, che non faceva alcun movimento a
parte respirare.
Diavolo, se il grosso bastardo avesse voluto, avrebbe potuto
distruggere quel posto già dieci volte a quel punto. Invece? Se ne
stava solo lì in piedi.
E stava lì.
E…stava lì.
A un certo punto, T.W. si schiarì la gola e decise che se
dovevano esserci problemi, sarebbe già successo. “No, non c’è
nessun problema. Mi siedo. Adesso.”
Piantò il culo sulla sedia dietro la scrivania e piegandosi di lato
aprì un cassetto frigo che conteneva diverse bottiglie d’acqua
gassata. “Posso offrirvi qualcosa da bere?”
Quando entrambi dissero di no, T.W. aprì una Perrier con limone
e ne ingoiò metà come se fosse stata Scotch.
“D’accordo. Ho bisogno di avere la storia medica.”
La moglie si accomodò e il marito le rimase accanto, occhi fissi
su T.W. Strano, però. Si stavano tenendo per mano e T.W ebbe
l’impressione che la moglie fosse una specie di salvagente per il
marito.
Richiamando tutto il suo addestramento, T.W. tirò fuori la sua
penna Waterman e fece le domande consuete. Fu la moglie a
rispondere. Nessuna allergia conosciuta. Nessuna operazione
chirurgica. Nessun problema di salute.
“Ah…dove sono i tatuaggi?” Per favore, Dio, fa che non siano
sotto la cintola.
“Sui polsi e sul collo.” Lei alzò lo sguardo verso il marito con
occhi luminosi. “Fagli vedere, tesoro.”
L’uomo tirò su una manica. T.W. corrugò la fronte mentre la
curiosità medica prendeva il sopravvento. Il tatuaggio nero era
incredibilmente denso, e anche se non era un esperto di quella
roba neanche alla lontana, poteva con sicurezza dire di non avere
mai visto una colorazione così profonda prima di allora.
“È molto scuro,” disse piegandosi in avanti. Qualcosa gli diceva
di non toccare l’uomo a meno che non fosse stato necessario, e
seguì l’istinto, tenendo le mani lontane. “È molto, molto scuro.”
Erano come manette, pensò.
T.W. tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia. “Non sono
sicuro se sia un buon candidato per la rimozione con il laser.

L’inchiostro sembra così denso che come minimo richiederà più
sedute anche solo per scalfirlo.”
“Ci proverà, però?” chiese la moglie. “Per favore?”
T.W alzò le sopracciglia. Per favore era una parola praticamente
sconosciuta per la maggior parte dei pazienti della clinica. E il

tono della donna era ugualmente sconosciuto in quel posto, la sua
quieta disperazione più simile a quella che si sentiva nelle
famiglie dei pazienti trattati al piano di sopra, quelli con problemi
medici che condizionano la vita, non solo le zampe d gallina e le
rughe intorno alla bocca.
“Posso provarci,” disse, ben consapevole che se la donna avesse
usato di nuovo quel tono, avrebbe potuto fargli mangiare le sue
stesse gambe solo per farle piacere.
T.W. guardò il marito. “Vorrebbe togliersi la maglia e sedersi sul
lettino?”

La moglie strinse forte la grande mano. “È tutto okay.”
Il viso del marito, con le guance scavate e la mascella
prominente, si girò verso la donna, e sembrò prendere forza
concreta dal guardarla negli occhi. Dopo un momento si avvicinò
al lettino, sedette l’enorme corpo sulla cosa, e si tolse la dolce
vita.
T.W. lasciò la sedia e girò intorno…
Si immobilizzò. La schiena dell’uomo era ricoperta di cicatrici.

Cicatrici…che sembravano lasciate da una frusta.
Nella sua intera carriera medica T.W. non aveva visto mai visto
niente di simile, e seppe che erano il risultato di qualche tipo di
tortura.
“I miei tatuaggi, Doc,” disse il marito in tono pericoloso.
“Dovrebbe guardare i miei tatuaggi, grazie tante.”
Mentre T.W. sbatteva gli occhi, il marito scosse la testa. “Non
funzionerà…”
La moglie gli corse accanto. “No, funzionerà. È…”
“Troviamo qualcun altro.”
T.W. si portò davanti all’uomo, bloccando l’uscita. E poi con un
gesto deliberato sfilò la mano sinistra dalla tasca. Gli occhi neri si

abbassarono e fissarono la pelle macchiata e il mignolo mancante.
Il paziente tirò su la testa sorpreso; poi gli occhi divennero due
fessure come se si stesse chiedendo fino a dove arrivava l’ustione.
“Su fino alla spalla e giù lungo la schiena,” disse T.W. “Incendio
in casa quando avevo dieci anni. Sono rimasto intrappolato in
camera mia. Sono rimasto cosciente mentre bruciavo…tutto il
tempo. Dopo ho passato otto settimane in ospedale. Ho subito
diciassette operazioni.”
Ci fu un momento di silenzio, come se il marito stesse passando
al vaglio le implicazioni nella propria mente. Se eri cosciente, devi
aver sentito l’odore della carne che bruciava e aver sentito ogni
attimo di dolore. E il periodo in ospedale…le operazioni…
All’improvviso l’intero corpo dell’uomo si rilassò, la tensione
fluì via come se fosse stata aperta una valvola.
T.W. aveva visto la stessa cosa succedere più volte con i suoi
pazienti ustionati. Se il tuo dottore sapeva cosa voleva dire essere

dove eri tu in quel momento, non perché gli è stato insegnato alla
facoltà di medicina ma perché l’ha vissuto, ti sentivi più al sicuro
con lui: eravate entrambi membri dello stesso club esclusivo da
duri.
“Quindi, può fare qualcosa per questi, Doc?”chiese l’uomo,
appoggiando gli avambracci sulle cosce.
“Va bene se la tocco?”
Il labbro attraversato dalla cicatrice si alzò appena , come se
T.W. avesse appena ottenuto un altro punto nella colonna delle
cose fatte bene. “Certo.”

T.W. usò deliberatamente entrambe le mani sui polsi del paziente
così che il tipo potesse avere tutto il tempo di guardare le cicatrici

del suo dottore e di rilassarsi.
Quando ebbe finito, si tirò indietro.
“Beh, non sono sicuro di come andrà ma proviamoci…” T.W:
alzò lo sguardo e si fermò. Le iridi dell’uomo…erano gialle
adesso. Non più nere.
“No si preoccupi dei miei occhi, Doc.”
Da chissà dove, l’idea che tutto era a posto con quello che aveva
visto gli fluì nel cervello. Giusto. Nessun. Problema. “Dove
ero…Oh, sì. Beh, facciamo un tentativo con il laser.” Si girò verso
la moglie. “Forse potrebbe prendere una sedia e tenergli la mano?
Credo che si sentirebbe più a suo agio così. Comincerò con un
polso e vediamo come va.”
“Devo sdraiarmi?” chiese il paziente tetramente. “Perché non
credo…sì, non credo che sarei d’accordo.”
“Assolutamente no. Può rimanere seduto, anche quando lavorerò
sul collo, e per quella parte le darò uno specchio così potrà
guardare. Per tutto il tempo le dirò esattamente cosa starò facendo,
quello che probabilmente sentirà, e possiamo sempre fermarci.
Deve solo dirlo ed è finita. È il suo corpo. Ha lei il controllo.
Okay?”
Ci fu un momento di silenzio mentre entrambi lo fissarono. E poi
la moglie disse con voce rotta, “Lei, dottor Franklin, è un vero
tesoro.”
Il paziente aveva un’incredibile tolleranza per il dolore, pensò
T.W. un’ora dopo mentre premeva il pedale e il laser sparava un
altro sottile raggio rosso sulla pelle ricoperta d’inchiostro del

grosso polso. Un’incredibile
tolleranza per il dolore. Ogni scarica

era come essere colpiti con un elastico, non tutta sta gran cosa se
era fatto una volta o due. Ma dopo un paio di minuti di quei colpi,
la maggior parte dei pazienti avevano bisogno di fermarsi. Quel
tipo? Mai un movimento, nemmeno una volta. Quindi T.W.
continuò e continuò…
Naturalmente con i piercing ai capezzoli e all’orecchio e tutte
quelle cicatrici, era ovviamente abituato all’agonia, sia per scelta
che senza.
Sfortunatamente i tatuaggi erano resistenti al laser.
T.W. fece un sospiro dicendo una parolaccia e scrollò la mano
destra, che cominciava ad essere stanca.

“Va bene, Doc,” disse il paziente piano. “Ha fatto il meglio che
poteva.”
“È solo che non capisco.” Si tolse gli occhiali protettivi e guardò
il macchinario. Per un momento si chiese se la cosa stesse
funzionando come doveva. Ma aveva visto il laser. “Non c’è alcun
cambiamento nella colorazione.”
“Doc, davvero, va bene.” Il paziente si tolse gli occhiali e sorrise
un po’. “Apprezzo che la stia prendendo tanto seriamente.”
“Dannazione.” T.W. si sedette sullo sgabello e fissò l’inchiostro.
Senza pensare, dalla bocca gli uscirono delle parole, anche se era
una cosa decisamente poco professionale. “Non ha fatto tutto
questo volontariamente, vero.”
La moglie si agitò come se temesse la risposta. Ma il marito
scosse la testa. “No, Doc. Non l’ho fatto.”
“Dannazione.” Incrociò le braccia e passò al setaccio la sua
conoscenza enciclopedica della pelle umana. “Solo non capisco
perché…e sto cercando di pensare a delle alternative. Non credo
che una rimozione chimica sarebbe più efficace. Voglio dire che
ha sopportato tutto quello che il laser poteva fare.”
Il marito passò le dita stranamente eleganti sul polso. “Possiamo
tagliarli via?”
La moglie scosse la testa. “Non credo sia una buona idea.”
“Ha ragione,” mormorò T.W. Si sporse in avanti e tocco il
derma. “Ha eccellente elasticità, ma poi, visto che ha venticinque
anni, c’era da aspettarselo. Voglio dire, dovrebbe essere fatto a
strati e la pelle ricucita. Le rimarrebbero delle cicatrici. E non lo
consiglierei intorno al collo. Troppi rischi con le arterie.”
“E se le cicatrici non fossero un problema?”
Non avrebbe toccato l’argomento. Le cicatrici erano ovviamente
un problema dato lo stato della schiena dell’uomo. “Non potrei
raccomandarlo.”
Ci fu un lungo silenzio mentre continuava a pensare a tutta la
faccenda e la coppia gli lasciò spazio. Quando giunse alla fine
delle possibili alternative, li fissò. La bellissima moglie era seduta
accanto al marito dall’aspetto terrificante, una mano sul braccio
libero e l’altra sulla schiena mutilata, che lo accarezzava.
Era ovvio che le cicatrici non minavano il suo valore agli occhi
della donna. Per lei era completo e affascinante a dispetto delle
condizioni della sua pelle.
T.W. pensò alla propria moglie. Che era esattamente identica.
“Finito le idee, Doc?” chiese il marito.

“Mi spiace così tanto.” Distolse lo sguardo, odiando il fatto di
sentirsi tanto inutile. In qualità di dottore era addestrato a fare
qualcosa. Come essere umano dotato di cuore, aveva bisogno di
fare qualcosa. “Sono davvero molto spiacente.”
Il marito sorrise quella sua solita piccola smorfia. “Cura molte
persone con ustioni, vero.”
“È la mia specialità. Bambini, soprattutto. Sa, a causa del…”
“Sì, lo so. Scommetto che è bravo con loro.”
“Come potrei non esserlo?”
Il paziente si sporse in avanti e appoggiò le grosse mani sulle
spalle di T.W. “Ce ne andiamo adesso, Doc. Ma la mia shellan le
lascerà il pagamento sulla scrivania laggiù.”
T.W. guardò la moglie, che era piegata su un libretto degli
assegni, poi scosse la testa. “Perché non diciamo che siamo pari?

questo non l’ha davvero aiutata.”
“No, abbiamo preso il suo tempo. Pagheremo.”
T.W. imprecò sotto voce un paio di volte. Poi sputò,
“Dannazione.”

“Doc? Mi guardi adesso.”
T.W. alzò lo sguardo sull’uomo. Cavolo, quegli occhi gialli
erano decisamente ipnotici. “Wow. Ha degli occhi incredibili.”

Il paziente sorrise più apertamente, mostrando i denti che
erano…non normali. “Grazie, Doc. Adesso ascolti. Probabilmente
sognerà tutto questo, e voglio che si ricordi che me ne sono andato
stando bene, okay?”
T.W. corrugò la fronte. “Perché dovrei sognare…”
“Solo si ricordi, mi va bene quello che è successo.

Conoscendola, quello è ciò che le darà più fastidio.”
“Continuo a non capire perché dovrei…”
T.W. sbatté gli occhi e si guardò intorno nella sala visite. Era
seduto sul piccolo sgabello con le rotelle che usava quando curava

i pazienti, e c’era una sedia accanto al lettino, e in mano aveva gli
occhiali protettivi…ma non c’era nessuno nella stanza a parte lui.
Strano. Avrebbe potuto giurare di aver appena parlato con il più
incredibile…
Mentre gli veniva mal di testa, si massaggiò le tempie e si sentì
all’improvviso esausto…esausto e curiosamente depresso, come
se avesse fallito in qualcosa che era stato importante per lui.
E preoccupato. Preoccupato per un…
Il mal di testa peggiorò, e con un grugnito T.W. si alzò e andò
alla scrivania. C’era una busta appoggiata sopra, una semplice
busta color crema con una calligrafia fluente che diceva, Con
gratitudine a T.W. Franklin, M.D., per essere usato a sua
discrezione in favore delle opere di bene fatte dal suo
dipartimento.
La girò, l’aprì e tirò fuori l’assegno.
La mandibola quasi gli finì per terra.
Cento mila dollari. A favore del Dipartimento di dermatologia
dell’ospedale St. Francis.
Il nome del benefattore era Fritz Perlmutter, e non c’era
indirizzo, solo una discreta annotazione: Banca Nazionale di
Caldwell, Gruppo Clienti Privati.
Cento mila dollari.
L’immagine di un marito ricoperto di cicatrici e di una moglie
bellissima spuntò nella sua mente, ma fu presto sepolta dal mal di
testa.
T.W. prese l’assegno e lo infilò nel taschino della camicia, poi
spense la macchina laser e il computer, e si avviò verso il retro

della clinica, spegnendo le luci man mano che passava.
Sulla strada di casa si ritrovò a pensare a sua moglie, al modo in
cui era stata quando l’aveva visto per la prima volta dopo
l’incendio. Aveva avuto undici anni ed era andata a trovarlo con i
genitori. Lui si era sentito completamente mortificato quando lei
era entrata dalla porta perché aveva già una cotta per lei a quel
punto, ed eccolo lì, fermo in un letto d’ospedale, un intero lato del
corpo ricoperto dalle bende.
Lei gli aveva sorriso, gli aveva preso la mano buona e gli aveva
detto che non importava che aspetto avesse il suo braccio, voleva
comunque essergli amica.
E diceva sul serio. E glielo aveva dimostrato più e più volte.
Ed era diventata più che un’amica.
Qualche volta, T.W. pensava che il fatto che alla persona che ami
non importi del tuo aspetto fosse la miglior medicina possibile.
Mentre guidava, passò davanti a una gioielleria chiusa per la
notte, e poi un fioraio e poi un negozio d’antiquariato che sapeva
essere uno dei preferiti di sua moglie.
Lei gli aveva dato tre figli. Quasi vent’anni di matrimonio. E
spazio per lavorare alla sua carriera.
Lui le aveva dato tante notti solitarie. Cene da sola con
bambini. Vacanze di un giorno o due attaccate a qualche convegno
di dermatologia.
E una Volvo.
A T.W. ci vollero venti minuti per andare a un Hannaford aperto
tutta la notte, ed entrò di corsa anche se non c’era alcun orario di
chiusura di cui preoccuparsi.
La sezione dei fiori era sulla sinistra, appena oltre le porte
automatiche dell’ingresso. Mentre guardava le rose, i crisantemi e
i gigli, pensò di riempire di mazzi di fiori il bagagliaio della Lexus
e anche il sedile posteriore.
Alla fine però, scelse un singolo fiore e lo tenne in mano con
attenzione tra il pollice e l’indice per tutto il tragitto fino a casa.
Parcheggiò nel garage, ma non passò dalla cucina. Invece andò
alla porta principale e suonò il campanello.
Il volto adorabile e familiare di sua moglie fece capolino dalla
lunga finestra che incorniciava l’entrata della loro casa in stile
coloniale. Sembrò confusa mentre apriva la porta.
“Hai dimenticato le…”
T.W. le porse il fiore con la mano ustionata.
Era una modesta piccola margherita. Esattamente come quelle

che lei gli aveva portato una volta alla settimana in ospedale. Per
due mesi di fila.
“Non dico grazie abbastanza,” mormorò T.W. “O che ti amo. O
che penso ancora che tu sia bella come il giorno in cui ti ho
sposata.”
La mano di sua moglie tremò mentre prendeva il fiore.
"T.W…stai bene?”
“Dio…il fatto che tu debba chiedere una cosa del genere solo
perché ti ho portato un fiore…” Scosse la testa e l’abbracciò,
tenendola stretta fra le braccia. “Mi dispiace.”
La figlia adolescente gli passò accanto e roteò gli occhi prima di
salire le scale. “Prendete una stanza.”
T.W. si tirò indietro e spostò una ciocca dei capelli sale e pepe di
sua moglie dietro l’orecchio. “Credo che dovremmo seguire il suo

consiglio, che ne dici? E approposito, andremo da qualche parte
per il nostro anniversario, e non a una conferenza.”
Sua moglie sorrise e poi scoppiò a ridere. “Che cosa ti è preso?”
Ho visto questo paziente e sua moglie stasera…” Fece una
smorfia di dolore e si massaggiò le tempie. “Voglio dire…che
stavo dicendo?”
“Che ne dici della cena?” disse sua moglie, mettendosi al suo
fianco. “E poi vediamo che si può fare per quella camera?”
T.W. si appoggiò su sua moglie e richiuse la porta. Mentre
percorrevano insieme il corridoio diretti in cucina, la baciò. “È

perfetto. Semplicemente perfetto.”


CAPITOLO 10

 Ritornati alla residenza della Fratellanza, Z rimase in piedi
davanti a una delle finestre della camera da letto sua e di Bella e
guardò in basso oltre il terrazzo e i giardini. Il polso gli bruciava
dove era stato usato il laser, ma il dolore non era forte.
“Non sono sorpreso per come sono andate le cose,” disse. “Beh,
a parte il fatto che mi è piaciuto il dottore.”
Bella gli si avvicinò da dietro e gli mise le braccia intorno alla
vita. “Era un brav’uomo, vero?”
Mentre se ne stavano lì insieme, c’erano un sacco di e adesso
cosa in giro per la stanza. Sfortunatamente Z non aveva alcuna
risposta. Aveva contato sul fatto che i tatuaggi fossero rimossi,
come se quello avesse potuto rendere tutto più facile.
Anche se non era come se non ci fossero le cicatrici sul suo viso.
Dalla nursery Nalla si fece sentire con un gorgoglio e un
singhiozzo. E poi si mise a piangere.
“Le ho appena dato da mangiare e l’ho cambiata,” disse Bella,
tirandosi indietro. “Non sono sicura di cosa possa volere…”
“Lasciami andare da lei,” disse Z con voce tesa. “Lasciami
vedere se posso…”
Bella alzò le sopracciglia, ma poi annuì. “Okay. Rimango qui.”
"Non la farò cadere. Lo prometto.”
“Lo so che non lo farai. Solo assicurati di sostenerle la testa.”
“D’accordo. Capito.”
Mentre entrava nella nursery, Z si sentì come se stesse andando
incontro a uno squadrone di lessers completamente disarmato.
Come se avesse percepito la sua presenza, Nalla sbuffò.
“Sono tuo padre. Papà. Babbo.” Come l’avrebbe chiamato?
Si avvicinò alla culla e diede un’occhiata a sua figlia. Aveva
addosso una tutina dei Red Sox, senza dubbio un regalo di V e/o
Butch, e il labbro inferiore le tremava come se volesse saltare giù
dal mento ma avesse paura della caduta.
“Perché stai piangendo, piccolina?” disse piano.
Quando alzò le braccia verso di lui, Z controllò la porta. Bella
non era lì, e ne fu felice. Non voleva che nessuno vedesse quanto
era impacciato mentre si chinava nella culla a prendere…
Nalla gli stava tra le mani in modo perfetto, il sederino in una e
a testa nell’altra. Mentre si tirava su portandola con sé, Nalla era
sorprendentemente robusta e calda e …
Si aggrappò alla sua dolce vita e lo tirò verso di sé, pretendendo
vicinanza…e farlo sembrò facile in modo incredibile. Mentre la
teneva stretta sul suo torace, Nalla si calmò subito, accoccolandosi
sul suo corpo.
Tenerla in braccio era così naturale. E lo era altrettanto dirigersi
verso la sedia a dondolo, sedersi e usare un piede per andare su e
giù.
Guardando le sue ciglia, le guanciotte e la stretta che manteneva
sulla sua maglia, Z si rese conto di quanto Nalla avesse bisogno di
lui, e non solo per proteggerla. Aveva anche bisogno di essere
amata.
“Sembra che andiate d’accordo,” disse Bella piano stando sulla
porta.
Z alzò lo sguardo. “Sembra che le piaccia.”
“Come potrebbe essere diversamente?”
Tornando a guardare sua figlia, dopo un attimo Z disse, “Sarebbe
stato grandioso se fossi riuscito a rimuoverli. Quei tatuaggi. Ma lei
avrebbe comunque fatto domande sul mio viso.”
“Ti amerà comunque. Lo fa già.”
Z passò un dito sul braccio di Nalla, accarezzandola mentre lei si
accoccolava ancora più stretta vicino al suo cuore e gli dava
piccole pacche sul dorso della mano libera.
Senza pensare, Z disse, “Non mi hai mai detto molto sul tuo
equestro.”
"Io…ah, non volevo turbarti.”
“Ti ritrovi spesso a proteggermi da cose che potrebbero
turbarmi?”
“No.”
“Ne sei sicura?”
“Zsadist, se lo faccio, è perché…”
“Non valgo granché come uomo se non posso esserci quando hai
bisogno di me.”
“Ci sei sempre per me. E ne abbiamo parlato un pochino.”
“Un pochino.”
Dio, si sentiva una merda per tutto quello che Bella aveva dovuto
fare da sola, solo perché la sua testa era un casino.
Eppure la voce di Bella era forte e sicura quando disse, “Quando
si parla del sequestro, non voglio che tu sappia tutti i dettagli di
quello che è successo. Non perché tu non sia in grado di gestirli,
ma perché non voglio dare a quel bastardo maggiore influenza
sulla mia vita di quanta non ne abbia già avuta.” Scosse la testa.
“Non gli darò il potere di turbarti se posso evitarlo. Non
succederà, e sarebbe vero indipendentemente dal fatto che tu fossi
passato o meno attraverso eventi traumatici.”
Z emise un suono per farle capire che aveva sentito quello che gli
era stato detto, ma non fu d’accordo con lei. Voleva darle tutto ciò
di cui aveva bisogno. Non meritava niente di meno. E il suo
passato aveva avuto un impatto sulle loro vite. Ancora lo aveva.
Cristo, il modo in cui si era comportato con Nalla era stato…
“Posso dirti una cosa in confidenza?” disse Bella.
“Naturalmente.”
“Mary vuole un bambino.”
Gli occhi di Z si alzarono di colpo verso Bella. “Davvero? È
grandioso…”
“Un figlio biologico.”
“Oh.”
“Sì. Non può averne uno suo, quindi Rhage dovrebbe andare a
letto con una delle Prescelte.”
Z scosse la testa. “Non lo farebbe mai. Non andrà con nessuna a
parte Mary.”
“È quello che ha detto Mary. Ma se non lo fa, lei non potrà mai
tenere tra le braccia una parte di lui.”
Sì, perché l’inseminazione in vitro non funzionava nei vampiri.
“Merda.”
“Non ne ha ancora parlato con Rhage perché prima di tutto vuole
capire cosa prova lei stessa. Parla con me così da poter
sperimentare le montagne russe delle sue emozioni senza
costringerlo ad assistere. Un giorno vuole un bambino così tanto
che crede di poter gestire la cosa. Il giorno dopo semplicemente
con riesce a sopportare l’idea e considera la possibilità
dell’adozione. Il mio punto è che non puoi risolvere tutto con il
tuo compagno. E non dovresti. Tu eri lì per me dopo. E sei qui per
me adesso. Non l’ho mai messo in dubbio. Ma ciò non significa
che io ti debba trascinare fino al nocciolo del problema. Guarire è
una cosa complessa.”
Z si immaginò di dover raccontare a Bella tutti i dettagli degli
abusi a cui era stato sottoposto…No…non voleva assolutamente
che a Bella si spezzasse il cuore sentendo del fottuto incubo da cui
era passato.
“Hai parlato con qualcuno?” le chiese.
“Sì, alla clinica di Havers. E ho parlato con Mary.” Fece una
pausa. “E sono tornata là…dove sono stata tenuta prigioniera.”
Gli occhi di Z fissarono Bella. “Lo hai fatto?”
Lei annuì. “Dovevo.”
“Non me l’hai mai detto.” Cazzo, era tornata in quel posto?
Senza di lui?
“Avevo bisogno di andarci. Per me. E avevo bisogno di andarci
da sola e non volevo discutere. Mi sono assicurata che Wrath
sapesse che stavo uscendo e che fosse avvertito immediatamente
del mio ritorno.”
“Dannazione…avrei voluto saperlo. Mi fa sentire un hellren di
merda.”
“Non lo sei affatto. Specie adesso che tieni tra le braccia tua
figlia.”
Ci fu un lungo silenzio.
“Senti,” disse Bella, “se può esserti d’aiuto, non ho mai provato
la sensazione di non poterti dire qualcosa. Non ho mai messo in
dubbio il fatto che saresti stato forte per me e mi saresti stato
accanto. Ma solo perché siamo una coppia non significa che io
non sia una persona completa da sola.”
“Lo so…” Z ci pensò per un minuto. “Non volevo ritornare dove
io…In quel castello. Se non fosse stato per il fatto che teneva un
altro prigioniero giù in quella cella…non ci sarei mai tornato.”
E adesso non avrebbe più potuto farlo. Il posto dove era stato
confinato era stato da tempo venduto agli umani, ed era finito a far
parte Patrimonio Nazionale d’Inghilterra.
“Ti sei sentita meglio?” le chiese Z di colpo. “Dopo essere
andata a vedere dove ti avevano tenuta?”
“Sì, perché Vishous ha ridotto il posto in cenere. La fine è stata
più completa in quel modo.”
Z accarezzò il pancino di Nalla senza pensarci mentre fissava
negli occhi la sua shellan. “Mi chiedo perché non ne abbiamo
parlato prima.”
Bella sorrise e fece un cenno con la testa verso la piccola.
"Avevamo qualcos’altro a cui pensare.”
“Posso essere onesto? C’è una parte di me che ha bisogno di
credere che se tu avessi voluto che venissi con te in quel posto, sai
che l’avrei fatto in un attimo e sarei rimasto forte per te.”
“Lo so questo, assolutamente. Ma volevo comunque andare da
sola. Non riesco a spiegarlo…era solo qualcosa che avevo bisogno
di fare. Una prova di coraggio.”
Nalla guardò nella direzione di Bella e si mosse verso di lei con
un piccolo brontolio di richiesta.
“Credo che voglia qualcosa che solo tu puoi darle,” disse Z con
un sorriso mentre si alzava dalla sedia a dondolo.
Lui e Bella si incontrarono nel centro della stanza. Mentre si
passavano la bambina, Z baciò la sua shellan e indugiò per
qualche momento, entrambi a sorreggere la figlia.
“Esco, okay?” disse. “Non ci metterò molto.”
“Fai attenzione.”
“Lo prometto. Devo prendermi cura delle mie ragazze.”
Zsadist prese le proprie armi e si smaterializzarò a ovest della
città, in un tratto di foresta nel bel mezzo della campagna.
La radura spoglia era cento cinquanta metri più avanti, vicino a
un ruscello, ma invece di vedere un’estensione vuota in mezzo ai
pini, si immaginò una baracca formata da una sola camera,
rivestita di legno e con un tetto di lamiera.
Quello che c’era nella sua mente era chiaro come gli alberi che
aveva intorno e le stelle nel cielo notturno sopra la sua testa. Il
complesso era stato costruito alla svelta dalla società dei lessers
con un occhio verso la provvisorietà. Ciò che era stato fatto
all’interno, però, era roba permanente.
Z camminò fino alla radura, i ramoscelli sul suolo della foresta
scricchiolavano sotto i suoi stivali, ricordandogli il suono di un
fuocherello nel camino.
I suoi pensieri erano tutt’altro che calmi e confortevoli.
Quando si entrava dalla porta, c’era stato un angolo doccia e un
secchio con attaccato un asse del gabinetto. Per sei settimane
Bella si era lavata nel cubicolo di un metro per un metro, e Z
sapeva che non era stata sola. Quel bastardo di un lesser era
rimasto a guardare. Probabilmente l’aveva aiutata.
Merda, l’idea che una cosa del genere potesse essere accaduta gli
faceva venir voglia di dare la caccia allo stronzo un’altra volta.
Ma Bella si era occupata della morte del cacciatore, vero. Era stata
lei a sparargli in testa mentre il bastardo era rimasto in piedi, di
fronte a lei, ammaliato dall’amore malato che provava nei suoi
confronti…
Cazzo.
Dandosi una scrollata, Z immaginò di trovarsi ancora una volta
nella stanza principale del capanno. Sulla sinistra una parete era
stata piena di scaffali con strumenti di tortura appoggiati sulle assi
di legno tenute su da rozzi supporti. Scalpelli, coltelli,
seghe…ricordava quanto erano stati lucidi.
C’era stato anche uno sgabuzzino a prova d’incendio, uno di cui
Z aveva rancato via le porte.
E un tavolo autopsie di acciaio inossidabile sporco di sangue
fresco.
Che aveva scagliato in un angolo come immondizia.
Poteva ricordare perfettamente il momento in cui aveva fatto
irruzione nella struttura. Aveva cercato Bella per settimane dopo
che i lessers
le erano entrati in casa e l’avevano presa. Tutti

pensavano fosse morta, ma lui aveva rifiutato di crederci. Era stato
torturato dal bisogno di liberarla…un bisogno che allora non
aveva capito ma che non aveva potuto negare.
La svolta era arrivata quando un vampiro civile era scappato dal
“centro di persuasione”, come venivano chiamati dalla società dei
lessers, e aveva rintracciato la sua posizione dematerializzandosi
fuori dalla radura in salti di circa cento chilometri attraverso la
foresta. Dalla mappa che aveva disegnato per la Fratellanza, Z era
venuto lì in cerca della sua donna.
La prima cosa che aveva trovato era stato un cerchio di terra
bruciata proprio fuori dalla porta, e aveva pensato che si fosse
trattato di Bella, lasciata fuori al sole. Si era piegato sulle
ginocchia e aveva appoggiato una mano sul cerchio di cenere,e
quando la sua vista si era fatta sfocata non aveva capito il perché.
Lacrime. C’erano state lacrime nei suoi occhi. Ed era passato
così tanto tempo da quando aveva pianto, che non le aveva
riconosciute.
Tornando al presente, Z si fece forza e avanzò, gli stivali
calpestarono le erbacce. Di solito, dopo che Vishous aveva usato
la sua mano su un posto, non rimaneva nulla a parte la cenere e
piccoli pezzi di metallo, ed era vero anche lì. Con il sottobosco
che stava crescendo, presto la radura avrebbe di nuovo fatto parte
della foresta.
I tre tubi che erano infilati nel terreno erano sopravvissuti, però.
 avrebbero continuato ad esistere non importa quanti alberi
fossero cresciuti.
Inginocchiandosi per terra, Z tirò fuori la Maglite e diresse il
raggio nel buco dove Bella era stata tenuta. Aghi di pino e acqua
avevano riempito in parte lo spazio.
Era stato dicembre quando l’aveva trovata nella terra, e poteva
solo immaginare il freddo che l’aveva circondata là sotto…il
freddo e l’oscurità e lo spazio limitato del metallo scanalato.
Per poco non si era lasciato sfuggire quelle prigioni sottoterra.
Dopo aver lanciato il tavolo autopsie dall’altra parte della stanza,
aveva sentito un sussurro, e quello l’aveva portato lì, a quei tre
tubi. Quando aveva aperto la rete di copertura del tubo da dove
proveniva il suono, aveva capito di averla trovata.
Solo che non era stato così. Quando aveva tirato su le funi
infilate nel buco, ne era emerso un civile, un uomo che tremava
come un bambino.
Bella era priva di sensi nel tubo in cui la tenevano.
Z si era beccato una pallottola nella gamba mentre lavorava per
liberarla, grazie al sistema di sicurezza che Rhage era riuscita a
disattivare solo in parte. Anche con il proiettile nella gamba, però,
non aveva provato alcun dolore mentre si chinava, afferrava le
corde e tirava su lentamente. Per prima cosa aveva visto i capelli
color mogano del suo amore, e il sollievo gli aveva dato le
vertigini e lo aveva fatto sentire come avvolto in una tiepida
nuvola. Ma poi il viso di Bella era diventato visibile.
Gli occhi erano stati chiusi con dei punti di sutura.
Z si alzò in piedi, il corpo in rivolta contro il ricordo, lo stomaco
sottosopra, la gola secca. L’aveva curata dopo averla trovata. Le
aveva fatto il bagno. Le aveva permesso di nutrirsi del suo sangue
anche se darle la merda corrotta che gli scorreva nelle vene
l’aveva portato sull’orlo della pazzia.
E l’aveva anche servita nel suo tempo del bisogno. Che era il
motivo per cui Nalla era nata.
In cambio? Bella gli aveva ridato il mondo.
Zsadist si diede un’ultima occhiata intorno, vedendo non il
paesaggio ma la verità. Bella poteva essere più piccola di lui,
poteva pesare cinquanta chili in meno, poteva non essere
addestrata nelle arti marziali e non sapere come sparare con una
pistola…ma era più forte di lui.
Aveva superato quello che le era stato fatto.
Poteva il passato essere così, si chiese, guardandosi intorno nella
radura desolata. Una struttura nella tua mente che puoi radere al
suolo e quindi liberartene?
Mosse il piede avanti e indietro sul suolo della foresta. Le
erbacce che erano spuntate dal terreno erano come baffi verdi, ed
erano concentrate nell’area che riceveva più luce solare.
Dalle ceneri nasceva nuova vita.
Z tirò fuori il telefono e compose un messaggio che non avrebbe
mai pensato di scrivere.
Gli ci vollero quattro tentativi prima che andasse bene. E quando
premette invio, in un certo senso seppe che aveva appena
cambiato il corso della sua vita.
E potevi farlo, vero, pensò mentre si rimetteva in tasca il RAZR.
Puoi scegliere una strada piuttosto di un’altra. Non sempre,
naturalmente. Qualche volta il destino ti guida a destinazione, ti
sbatte col culo per terra e tanti saluti.
Ma ci sono volte in cui sei in grado di scegliere l’indirizzo. E se
hai anche solo mezzo cervello, non importa quanto sembri difficile
e strano, entri in casa.
E ritrovi te stesso.

Black Dagger Brotherhood: Zsadist & Bella di smvgrey

...prossima settimana l'ultimo capitolo ... 

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