domenica 18 dicembre 2011

Le DONNE e la POESIA





LE DONNE E LA POESIA

Guardando indietro nella storia pochi, pochissimi nomi di donne poeta si sono affiancati a quegli degli uomini e di alcune di coloro che avrebbero potuto essere alla medesima altezza è rimasta appena una traccia. Dal tempo di Saffo, donna intelligente e sensibile, vissuta a Lesbo sulle coste dell’Asia Minore tra la fine del secolo VII° e l’inizio del VI° a.C. che ci ha lasciato frammenti di versi delicatissimi, per molti secoli c’è stato il silenzio. Più tardi ben poche poetesse hanno potuto mettersi in evidenza trovando un posto, pur se piccolo, nella letteratura. Perché?
La donna era troppo costretta da codici e regole nell’ambito familiare, non aveva accesso agli studi, non poteva educare il suo "afflato poetico" e non era in grado di acquisire quegli elementi di base che consentissero di dargli un’espressione dignitosa e toccante. Questa tensione poetica deve essere sostenuta dalla ricerca delle parole, da una capacità di sintesi, di armonia e di equilibrio perché la musicalità del verso non perda di incisività e di bellezza. Eppure le donne non mancavano di intelligenza e di sensibilità e neanche del "senso o afflato poetico" che tutte hanno.
Infatti chi di noi non prova una speciale commozione alla vista di un bambino piccolo, di un paesaggio eccezionalmente bello o quando è toccata dall’amore? Chi di noi non avverte, tanto per fare un esempio, lo struggimento del tempo che passa, o la tenerezza verso i nostri cari che se ne vanno? Anche le donne più concrete, più immerse nel fare e nel reale hanno momenti in cui il loro senso poetico potrebbe trasformarsi in "poesia". Se questo non accade è perché non possono fermarsi per dargli spazio e voce, approfondirlo e soprattutto perché mancano dei mezzi tecnici necessari per farlo. E’ vero che la poesia è "un tocco di grazia", ma va anche saputa creare e supportare.

Del 1200 in Italia ci rimangono tre sonetti di una poetessa nominata "Compiuta Donzella", cioè donna raffinata, completa, della quale non conosciamo il vero nome, la patria, la condizione sociale, Certamente visse nel XIII° secolo in Toscana, appartenne ad un ceto elevato ed ebbe un’educazione e una cultura molto rare in tempi in cui l’analfabetismo era diffusissimo e specialmente fra le donne. La sua è una testimonianza preziosa. In un sonetto esprime la sua inquietudine per il matrimonio a cui il padre la vuole obbligare e la sua ribellione che non manca di slancio e forza, pur essendo espressa con malinconica grazia. Ella teme che i doveri, gli obblighi e le occupazioni che questa nuova condizione le comporterà le tolgano il suo spazio, il suo "respiro", in poche parole un tempo tutto per sé. Il che è vero e non è vero. La maggior parte delle donne poeta è stata ed è sposata e non ha perso il suo "respiro". Poiché non esistono doveri così schiaccianti e assoluti che possano spegnere e soffocare del tutto l’afflato poetico.
Bisogna arrivare al Cinquecento con Gaspara Stampa (1523-1554) per avere le prime poetesse di un certo valore, donne vissute alle corti dove non mancavano libri e letterati con cui scambiare opinioni, insegnamenti ed esperimenti poetici. Le poetesse del Cinquecento furono tutte donne di cultura, sia le signore e principesse come Vittoria Colonna (1490-1547) e Veronica Gambara (1485-1550), sia le cortigiane "oneste" come Veronica Franco (1546-1591) e Tullia d’Aragona (1510-1556). Singolare presenza quella delle cortigiane nell’Italia del Rinascimento, così vistosa e riconosciuta da assumere l’aspetto di un’istituzione. Roma e Venezia ne contavano un gran numero e alcune di esse sapevano a memoria il Petrarca, leggevano i classici latini, rimavano sonetti, suonavano e cantavano. Aggiungevano alla miseria del loro mestiere una personalità più alta, spirituale e artistica che le innalzava nell’opinione della gente. Vedevano ai loro piedi letterati insigni, grandi artisti, potenti prelati e anche re. Nelle loro rime si trova un platonismo amoroso, un che di manierato, ma anche di elegante.
Fra gli spiriti più sinceri si distinse Gaspara Stampa, bella e intelligente, morta a 31 anni a Venezia, che uscì da questi schemi per la passionalità e la forza per cui proclamò il diritto della donna ad amare sempre e comunque fuori da ogni sanzione legale.
 Suo è il celebre verso:
"vivere ardendo e non sentire il male"
Le sue rime furono pubblicate postume dalla sorella, ma furono rivalutate solo nell’Ottocento.

Accanto a lei la tragedia della siciliana Isabella di Morra (1520-1545), pugnalata dai fratelli a venticinque anni per una colpa non commessa, riporta i toni al più cupo e torbido Medioevo. I suoi versi sono così schietti e strazianti che fanno di lei un "caso particolare" che non ammette paragoni.

Ben più celebre, tuttavia, resta Vittoria Colonna, dalla malinconia raccolta e dall’alta tempra morale, forse per la sua sorte di giovanissima vedova e la sua amicizia con Michelangelo che le fu devoto e avvolse il suo sentimento per lei in alte forme spirituali.

Ricordiamo velocemente anche Veronica Gambara, soprattutto per la nobiltà del suo stile. Ecco dunque che in questo periodo alcune donne possono far valere la loro voce e i palpiti dell’anima attraverso la cultura.

Nel Seicento dilagò l’aspirazione a comporre poemi e pure la gentildonna veneziana Lucrezia Marinella volle cimentarvisi con l’ "Enrico ovvero Bisanzio conquistata" che trattava di Enrico Dandolo e della quarta Crociata. Poi c’è stato un periodo di silenzio.

Però dalla seconda metà dell’Ottocento in poi anche le donne, specialmente di classi alto-borghesi, cominciano ad affacciarsi ai corsi superiori di studi e, per mezzo della cultura, hanno modo di far valere il loro genio. Perché non sono tanto gli studi regolari il vademecum per la poesia, quanto e soprattutto la cultura in generale. Prendiamo ad esempio alcuni casi di donne colte delle quali tratteremo parzialmente le vicende di vita:

Marceline Desbordes Valmore, definita da Paul Verlaine e confermata da Rambaud, poeti affermati, "la sola donna di genio e di talento di questo secolo (il XIX°) con George Sand". Attrice, cantante nei migliori teatri di Parigi, aveva un orecchio sensibilissimo e si era impadronita di tutti i segreti del verso e della rima, studiando a memoria i classici della letteratura francese, ad esempio Racine, sfiorando appena la scuola regolare. (Ognuno in genere attinge soprattutto alla letteratura nazionale perché nella traduzione dei poeti stranieri, anche se ottima, qualcosa si perde).
Tutti i maggiori poeti e letterati di Francia, Baudelaire, Hugo, Saint Beuve etc., erano rimasti incantati da quella donna che incarnava come pochi lo spirito del tempo, cioè del Romanticismo declinante e del primo Simbolismo, e la chiamavano maestro e la osannavano, ma che più tardi ha trovato scarso spazio nelle antologie o è stata ignorata. Perchè? Probabilmente perché donna e quindi di serie B.
Nata a Donai nella Fiandra Francese nel 1786, aveva avuto una vita tempestosa e sfortunata. Il padre era stato completamente rovinato dalla Rivoluzione. La madre la costrinse da bambina a recitare in compagnie girovaghe da città a città tra disagi e miserie. Poi la madre la trascinò a 15 anni a Guadalupe dove avevano un cugino e dove la madre morì di febbre gialla. Ci fu poi un terribile terremoto e lei rientrò in Francia. A 22 anni è già conosciuta come poetessa ed ha già pubblicato su riviste. Incontra uno scrittore importante, Henry de Latouche, se ne innamora follemente. Ha un figlio. Lui fa lunghi viaggi, la trascura.. Marceline spera e si dispera senza tregua:

Taci, sorella, ché il passato brucia.
Taci il suo nome, ché il suo nome è lui.
Ostinarsi sui beni perduti
è come andar con l’onda che ripiega.
Quel nome che mi è ardore e mi è dolcezza,
quel nome, quando appena ora mi tocca,
come un fuoco mi avvampa nella bocca.
Sorella, non parlare.
Pochi hanno saputo scavare così profondamente nei rapporti uomo-donna, analizzare le frustrazioni dell’animo femminile di fronte allo spirito inquieto dell’altro che sa amare, ma è sempre attratto da un altrove, da altre avventure e viaggi. Come l’eterna storia di Penelope ed Ulisse. Per venti anni quell’uomo la illumina e la perseguita nei suoi capolavori.
Nel frattempo il figlio muore e lei sposa un attore bello e mediocre che cerca di aiutare. Le nascono altri quattro figli, dei quali tre le premoriranno. Col marito si instaura un rapporto di solidarietà e indulgenza, ma è sempre perseguitata dai disagi e dalla povertà. Ha scritto anche poesie politiche in opposizione all’Impero di Napoleone III. Muore di cancro nel 1859.
Ma non occorrono grandi avvenimenti, avventure o dolori per stimolare la poesia. L’americana
Emily Dickinson
(1830-1886) ha avuto una vita piatta e povera di avvenimenti. Ha cantato le piccole cose: la nascita della sorella, la scuola, le visite ai parenti. La sua vita si svolge tutta all’interno, i suoi occhi guardano in dentro nella monotonia austera della vita borghese dei puritani, tuttavia nelle sue pagine ha lasciato il segno di una grande profondità e di spirito acuto, pronto anche alla battuta e all’umorismo.
In una vita svolta fra casa e chiesa incontra il reverendo Charles Wadsworth, sposato e con figli, che diventerà la sua stella fissa per sempre nella sua immaginazione, per il quale scrive molte poesie:
Io canto per riempire l’attesa:
annodarmi la cuffia,
richiudere la porta di casa,
nient’altro mi resta da fare,
finché risuoni vicino il suo passo,
e insieme si cammini verso il giorno,
narrandoci a vicenda come abbiamo cantato
per scacciare la tenebra.
Negli anni egli fa qualche breve visita in casa di Emily. Per lei sono lampi d’insostenibile luce. Più tardi un altro legame intellettuale e affettivo importante fu il giudice Lord, amico del padre. Si trattò comunque di una storia platonica. Se Emily non fosse stata scoperta da due importanti critici letterari, Thomas Higgins, che lei considerò suo maestro, ed Helen Jackson non avrebbe mai pubblicato. Infatti in vita pubblicò solo tre poesie (anonime) fra le centinaia che aveva scritto, tanto era gelosa dei suoi sentimenti e per niente desiderosa di notorietà.
La sua fama si affermò quasi subito dopo la sua morte avvenuta nel 1886 a 56 anni, perché, come lei dice in uno dei suoi epigrammi: "il potere e la groria sono doni per dopo la morte". E la morte non fa paura a chi vive con tanta intensità interiore.
E come pure la giovane
Iulia Hasdeu
(1869-1888), la più grande poetessa rumena che condensò in 18 anni tutta una lunga vita, lasciando un’opera immensa in poesie (delle quali 300 in francese a rima alternata o baciata), in prose, in studi filologici e filosofici e un fitto carteggio con amici rumeni e il padre. Sapeva benissimo il francese e altre lingue e aveva studiato tutti i classici. Nata nel 1869, viene avvicinata al destino del Leopardi per le conseguenze del suo immenso amore per i libri e per il suo studio "matto e disperatissimo" e a Rimbaud per aver scritto prima dei diciannove anni tutto quanto il destino le imponeva di scrivere. Ammessa alla Sorbona a Parigi (cosa eccezionale per una donna), si ammala di tubercolosi. Lo sforzo prolungato per passare con anticipo tutti gli esami rispetto ai suoi coetanei le fu fatale.
Raro caso di genio, ebbe il primato della precocità e delle sofferenza, ma resta la poetessa più sconosciuta. Non ebbe infatti il tempo di diventare celebre. Ella fu consapevole della sua fine, fino in fondo:
Ahimé, mi sento vecchia. Un macigno mi opprime.
Ignoro la mia età, ma sento a poco a poco
che una mortale inerzia, così contraria al fuoco,
troppo presto m’invade …
Le sue opere furono fatte pubblicare a Bucarest a cura del padre (Confidenze, versi, prose, corrispondenze).
Ebbe invece ben diversa fortuna
Else Lasker-Schüler, ebrea, chiamata "Il cigno d’Israele". Visse gli anni più intensi della grande Berlino e della grande Vienna culturale con i nomi più belli che sono ancora vivi nel pensiero europeo (Karl Kraus, Rainer Maria Rilke, Schönberg e altri). La sua massima ambizione fu quella di rappresentare, in spirito d’amore, l’anello di congiunzione fra ebrei e cristiani.
Nata nel 1869 da un rabbino e da una poetessa di origine spagnola, insieme ai suoi fratelli fu coccolata e privilegiata in una meravigliosa infanzia e in una splendida adolescenza. Ma la seconda parte della sua vita fu segnata da legami sbagliati, da solitudine, malattie, povertà cronica e dalla grande avventura di andare nel nascente Stato di Israele. C’è una sua poesia "Dolore cosmico" che in soli sei versi segna in modo struggente il passaggio fra il prima e il dopo. E’ tratta da "Stige", la sua prima raccolta
Io, l’ardente vento del deserto,
mi raffreddai, presi forma.
Dov’è il sole che possa liquefarmi,
dove il lampo che sappia frantumarmi!
Ora il mio sguardo è d’ira, una petrosa
testa di Sfinge volta a tutti i cieli.
Ebbe due mariti e un figlio da un amore rimasto sconosciuto. Specialmente il secondo marito, artista e musicista, e il figlio ispirarono molte delle sue poesie:
Sempre prona sono stata al mormorio del mio cuore,
mai ho veduto il mattino
e mai cercato Dio.
Ma ora cammino intorno ai versi d’oro
tessuti nelle membra di mio figlio,
e cerco Dio.
In "Ballate ebraiche" evocò gli eroi della Bibbia. Piccola e magra, coi capelli e gli occhi neri, vestiva in maniera originale, era una forza della natura, generosa, geniale, dal cuore ecumenico. Dopo il suo ingresso a Gerusalemme nel 1937 divenne una personalità di grande rilievo. Un critico svizzero la definì "la più forte e impervia apparizione lirica della moderna Germania che aveva visto e detto le cose del mondo come nessun altro prima di lei".
Ormai siamo ben lontani dai soli temi amorosi del Rinascimento e si approda a un respiro più vasto, ad accogliere temi sociali e umani.
Classico esempio italiano è la nostra
Ada Negri
(1870-1945) che, insieme ad Amalia Guglielminetti e Sibilla Aleramo, ebbe il suo momento di gloria durante la vita. Nella sua opera sono riscontrabili due momenti o forse due maniere. Nelle sue prime creazioni è stata violenta, socialista, accesamente polemica contro il mondo borghese, orgogliosa della miseria della sua famiglia di operai. Per lei studiare era stato quasi un atto eroico. Presto orfana di padre, diventò una lettrice appassionata soprattutto di Carducci e D’Annunzio. Divenne maestra e a diciannove anni ottenne la sua prima assegnazione stabile. Per lei era il riscatto. Non avrebbe mai lavorato in un orrendo opificio dove le condizioni dei lavoratori erano terribili, non diverse da quelle degli operai inglesi del primo ottocento, come le racconta Dickens. Avrebbe potuto istruire altri figli di operai.
Ada scrive molto. L’autorevole critico Raffaello Barbiera le pubblica su "l’Illustrazione Italiana" alcune poesie e quando esce "Fatalità" Ada può già considerarsi nell’Olimpo dei nomi che si discutono e si studiano. Il libro è veemente, mosso nei ritmi, appassionato, irruente, ricco di argomenti. Da "Fatalità" a "Esilio" del 1914 commuove tutti i cuori cantando i poveri, gli umili, gli oppressi e anche i peccatori con una profonda sincerità e umanità.
Nelle basse casupole sconnesse,
nel rozzo cascinale
ove penètra per le imposte fesse
la raffica invernale,
ove del foco sul tizzon che geme
l’ignavia si accovaccia,
e la pellagra insaziata freme
gialla e sparuta in faccia
Più tardi divenne professoressa per chiara fama alla Scuola Normale Gaetana Agnesi di Milano e sposò un industriale di Biella. Nel 1904, quando esce il libro "Maternità", una intensa e nuova dolcezza si esprime in versi più moderati e distesi. Pian piano diminuiscono i temi sociali per dar spazio a un lato più artistico e intimo. Nel libro di "Mara" del 1919 si riscontra per la prima volta anche l’esperienza della poesia della passione.
Ed io cammino appesa al tuo braccio; e mi stringo al tuo cuore;
e se dir t’odo il mio nome, impallidisco come chi muore.
Nel 1931 le viene conferito uno dei Premi Mussolini dell’Accademia d’Italia e nel 1940 viene eletta, prima e ultima donna, membro dell’Accademia stessa. La sua notorietà fu in continua ascesa fino alla morte.
Minor fortuna ebbero la povera Mariannina Coffa (1841-1878), siciliana, che fu costretta dalla famiglia a lasciare il suo unico amore e morì a trentasette anni, o Vittoria Aganoor Pompilj (1855-1910), padovana di nobile famiglia. Considerata uno dei più importanti poeti sulla fine del secolo e un po’ schiacciata dalla presenza dei tre grandi, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, fu tanto osannata in vita quanto poi trascurata dalla storia della letteratura.
Questo del resto capita alle grandi figure che non abbiano avuto la precauzione di accogliere un famoso avvertimento degli Arabi: mai nascere donna. Educata da Giacomo Zanella, lodata da Benedetto Croce, predilesse il verso libero, sciolto, indice di modernità, anziché la rima.
Ti ricordi l’odor del caprifoglio
là nel giardino, nelle sere estive
sotto le stelle che pioveano raggi
e promesse e sospiri? …
Condizionata dalle convenzioni mondane, fece vita riservata curando la madre fino a 46 anni, poi si sposò con l’onorevole Guido Pompilj, parlamentare in vista, e cominciò per lei una vita felice a Perugia, dove visse un’altra poetessa, Maria Alinda Brunamonti Bonacci, con la quale instaurò un legame di amicizia e di stima. Pubblicò nel 1900 il libro "Leggenda eterna". Il suo fu un matrimonio unico, perfetto. Morta lei a 55 anni, il marito si uccise con un colpo di pistola.
Ben altro temperamento quello di
Amalia Guglielminetti
(1885-1941), nata a Torino in una famiglia austera e un po’ retriva, preoccupata solo della sua bellezza e vivacità che doveva costantemente reprimere. Educata dalle monache, per contrasto tutto era in lei voglia di provocazione, di gustare ogni frutto proibito, di scandalizzare con le sue poesie e i suoi drammi. Ne "Le vergini folli" del 1907, e poi "Le seduzioni", "L’amante ignoto" ed altre sue produzioni c’è una simbologia erotica diventata di moda con Guido da Verona e Pitigrilli. Nel suo volto di poeta si riconoscono alterigia, rifiuto dei miti casalinghi, sfrenatezza sensuale, slancio ed esibizionismo. Ma insieme un bruciante senso di solitudine e di alienazione.
Così il male durò. Più tentatore
d’allora, a tratti, il tuo volto mi abbaglia.
Curiosità di te mi punge il cuore,
desiderio di te me lo attanaglia.
Molti l’ammirarono, molti la criticarono. Nel 1923 il romanzo "Quando avevo un amante" le procurò un processo per oltraggio al pudore. Non si sposò mai, perché non trovò mai l’uomo giusto che fosse all’altezza della sua intelligenza e del suo anticonformismo. Amò il poeta Guido Gozzano, la cui personalità la mise un po’ in ombra come autrice. Lo avrebbe anche sposato se lui glielo avesse chiesto, ma Guido non voleva nessuna per aridità e impotenza sentimentale e la malattia tubercolare. Così ebbero solo un amore platonico e un fitto epistolario.
Peraltro lui la considerò molto come autrice e donna e soprattutto come vera amica. La critica, che non le fu favorevole, ha sottolineato la ristrettezza dei suoi orizzonti, il suo sguardo miope sulle tragedie del suo tempo, su tutto ciò che non fosse sensibilità e casistica amorosa, tutta tesa a penetrare il nucleo incandescente dell’erotismo, a cesellare i suoi versi come Benvenuto Cellini i metalli preziosi.
Come tematiche esistenziali fu in netta contrapposizione con Ada Negri, ma Amalia non aveva quella sofferta esperienza dei diseredati e degli operai degli opifici, comune all’altra. Furono donne diverse, ognuna con talento diverso. Anche se ebbe successo con commedie brillanti come con "Nei e cicisbei" in cui profuse arguzia e spirito indiavolato, dieci anni dopo la sua scomparsa a soli 56 anni nel 1941, se non fosse per l’epistolario con Gozzano, pubblicato nel 1951, di lei non rimarrebbe quasi traccia.
Tutte le poetesse che hanno avuto il coraggio di scoprirsi, di mostrare a tutti il loro cuore e le loro passioni politiche o private sono state tacciate di femminismo. E il femminismo come forza morale, come lotta a secolari pregiudizi, nel periodo di dieci anni, più o meno corrispondenti al primo dopoguerra, fu incarnato nell’America Latina da quattro straordinarie figure femminili che nacquero nello spazio di pochi anni, dal 1889 al 1895. Sono: Gabriela Mistral, cilena, Delmira Agustini (1890-1914) e Juana de Ibarbourou (1895- 1980), uruguayane e Alfonsina Storni, argentina.
Ricche di una sensualità filtrata attraverso la più raffinata cultura all’interno della loro particolare originalità, esse riflettono i grandi movimenti europei, dal Simbolismo al Surrealismo al Futurismo, di cui la psicoanalisi andava sempre più nutrendo la poesia. Con
Gabriela Mistral
(1889- 1957), premio Nobel per la poesia nel 1945, ascoltiamo la voce degli Indios del Cile che subirono con particolare crudezza la colonizzazione spagnola. Avviliti in condizioni di vita infime. essi conservano l’antica dignità in un chiuso silenzio che la Mistral interpreta nei suoi elementi di dolore, di rabbia, di stanca tristezza. Ella stessa di stirpe india (il suo vero nome era Lucila Godoy Alcayaga) e grande amica di Pablo Neruda col quale condivise lo sdegno politico contro la dittatura, nel ’48 fu console a Napoli. Più tardi si ritirò a New York, povera perché con i soldi del Nobel aveva aiutato tanti esuli politici, dove tirò avanti facendo conferenze all’università. Morì di leucemia, la stessa malattia di Evita Peron che tanto aveva odiato.
La vicenda di
Alfonsina Storni


(1892- 1938), è semplice ma profondamente drammatica. Nata in Svizzera nel Canton Ticino da padre italiano, emigrò in Argentina. Bella ragazza, sempre sorridente, diventò maestra elementare a 18 anni, come Gabriela Mistral e Ada Negri, si trasferì a Buenos Aires e frequentò i circoli letterari, unica donna. Di idee liberali, lottò contro le convenzioni sociali e ogni forma di ipocrisia e seppe dare con la sua poesia raffinata la più acuta rappresentazione della grande città moderna, cantata anche dal poeta Borges, ricca di fermenti ma alienata, fragorosa e spietata. La città della solitudine.
Malinconiche strade uguali, tutte grigie,
fra cui talvolta spunta un pezzetto di cielo.
Quelle buie facciate e l’asfalto del suolo
hanno spento ogni tiepido sogno …
Divenne docente di letteratura e di declamazione poetica al Conservatorio Nazionale. Fra il 1930 e il ’34 fece un lungo viaggio in Europa. Ebbe un figlio illegittimo. Già malata di cancro, si uccise a 46 anni gettandosi nel Mar de la Plata. Personalità amara e disincantata, scrisse diverse raccolte fra le quali "Ocra" del 1925, considerato il suo capolavoro. Nello stesso anno 1938 in cui la Storni si uccide, si toglie la vita a 26 anni anche un’altra importante poetessa milanese,
Antonia Pozzi
(1912-1938), stendendosi sulla neve dopo aver ingerito 40 pasticche di sonnifero. Di una infelicità esistenziale nel tempo della sua prima gioventù, provò molta serenità, dovuta al suo grande amore per il creato e soprattutto per la montagna e una vibrante riconoscenza per il suo esistere.
tu sana, venata di sole,
porti sul grembo
il cielo tutto azzurro,
chiami voli d’uccelli
alle tue mani
colme di vento.
Ragazza coltissima, di sterminate letture, pronipote di Tommaso Grossi, figlia di un’aristocratica e di un grande avvocato milanese, fu la tipica figlia unica di eccezionale talento, amatissima e un po’ soffocata nel suo spazio vitale. Aveva tutto, ma lei era un’anima ardente, desiderosa di austerità, concretezza. E si sentiva felice non fra la ricca borghesia lombarda, ma fra i montanari e i pastori della Valsassina, dove trascorreva le vacanze a Pasturo. Quel senso di vuoto e di alienazione dalla società in cui viveva si accentuò per due storie d’amore finite male e il senso della morte e l’ombra ossessiva del suicidio cominciarono a pervadere le sue poesie, i suoi saggi e le sue lettere. La vera chiave del suo dramma si cela nella solitudine. Forse sarebbe stata la più grande poetessa del novecento, se fosse vissuta più a lungo. Di lei ci rimane una sola raccolta, "Parole".
Avrete notato come alcune di queste donne siano morte in età giovanile, o per malattia o in conseguenza della disperazione. La Storni, la Pozzi, la russa Marina Cvetaeva. Alcuni hanno voluto vedere in questi tragici eventi delle connessioni col fatto di essere donne troppo profonde, quasi alienate dal loro guardarsi dentro e scrutare nel mistero profondo dell’esistenza. Da tempo viene infatti dibattuto il tema del possibile influsso della depressione sull’arte e in particolare sulla poesia. Si vuole trovare cioè un collegamento fra la condizione di disagio esistenziale che favorisce un avvicinamento all’arte e una realizzazione in essa, e pare che in diversi casi questa teoria sia suffragata dai fatti, come la testimonianza di due poetesse del novecento, Amalia Rosselli morta suicida e Alda Merini ancora vivente, cui fu comune la triste esperienza del manicomio.
Io non sono molto convinta di questo, anche se ritengo che il disagio provato a contatto di una realtà che non piace favorisca sì il ripiegamento su se stessi, uno scavo di interiorità e la ricerca di altri valori che compensino questa sofferenza, ma crederei piuttosto il contrario e cioè che l’arte e la poesia siano piuttosto una cura, una valvola di salvezza nelle avversità della vita, abbiano cioè per i depressi e per le persone più sensibili e fragili quasi un valore terapeutico. Certo coloro che, nell’incalzare del quotidiano, ne reggono felicemente i ritmi, sono meno propensi alla riflessione e alla meditazione sui grandi temi dell’esistenza e forse non ne hanno neppure il tempo, ma che l’arte e la poesie siano quasi un privilegio dei depressi mi sembra un po’ una forzatura.
Una poetessa, invece, dalla lunga vita, scomparsa a 77 anni nel 1966 e che seppe superare prove e difficoltà con grande forza d’animo, fu la russa
Anna Achmatova
(1889- 1966). La sua produzione letteraria viene separata in due diverse maniere, come è stato diverso il suo modo di vivere negli anni della gioventù all’epoca degli Zar e in quelli successivi dello stalinismo.
Come un fiume io
- fui deviata. La durezza dei tempi
mutò della mia vita il corso.
In un alveo diverso
- di lato all’altro ora si è messa a scorrere.
E le mie rive io non conosco.
Solo dal contrasto si può valutare dolorosamente il senso della felicità e lei, da uno stato di paradiso, piombò nell’inferno. Da un tempo di agi, di cavalcate, di amori, di passeggiate in carrozza, di amici e viaggio, due anni dopo la rivoluzione del ’17 poco le restò della felicità possibile.
Sì, li ho amati, quei raduni notturni:
su un tavolo minuscolo bicchieri ghiacciati,
sopra il caffè un vapore sottile, profumato,
d’inverno il calore grave del camino arrossato,
l’allegria mordace dello scherzo letterario
Aveva rinunciato alla possibilità di salvarsi fuggendo a Parigi, ritenendo che un poeta non deve lasciare la sua patria e la sua lingua e tradire quelli che rimangono, ma debba piuttosto rinunciare ai privilegi e mettersi al livello del popolo che non può fuggire in massa. Anna Achmatova, che aveva sposato giovanissima uno dei più importanti poeti del tempo, Nicolaj Gumilëv, che fu fucilato come controrivoluzionario nel 1941 e con lui aveva vissuto un grande amore e un grande sodalizio letterario, visse in miseria a Mosca, San Pietroburgo e a Taskènt. Dopo la sua importantissima raccolta "Anno Domini" del 1921, tacque per venti anni per poi riprendere a scrivere, penetrando la nuova realtà sovietica. I più grandi poeti e amici se ne erano tragicamente andati, o uccisi o suicidati, e lei stessa, sebbene abbia cercato di essere sempre profondamente russa e abbia cercato di capire il nuovo stato di cose, viene sconfessata dal Comitato Centrale perché "il suo fondo rimane decadente, poco o nulla fruttifero per la fondazione di una nuova etica virile e costruttiva". Perché troppo considerata all’estero viene radiata dal Sindacato Scrittori e scansa i campi di lavoro solo per l’età avanzata. Nel 1966 viene in Italia per ritirare il Premio Taormina ed è la sua ultima gioia.
Una voce che irrompe forte e nuova dopo tanti versi letterari per cantare la quotidianità, la naturalezza, "i lineamenti immediati della vita" è quella di
Marina Cvetaeva
(1892-1941). Anch’essa russa, dalla vita travagliata, muore suicida dopo aver scritto versi bellissimi. La sua storia è una delle più tristi fra tutte le storie delle grandi poetesse finora citate. Figlia di un pope, filologo e critico d’arte e di una madre pianista presto deceduta, fu segnata da questo avvenimento e niente la distrasse da questa perdita, né viaggi, né amici, né lo studio pazzo e disordinato. Fu sempre angosciata dal senso della morte, dall’ansia del poeta nel folle tentativo di captare l’assoluto, di ricercare l’interlocutore ideale, che lei trovò in Rilke e Pasternak.
Ma i suoi contemporanei non la lessero e non la capirono, gli editori la rifiutarono, il potere politico la stritolò. La sua seconda bambina morì di denutrizione a quattro anni, mentre infuriava la guerra civile. Dopo questa tragedia anche il marito si ammalò di tubercolosi. Da allora cominciarono anni di peregrinazioni e fughe. Il marito, che aveva parteggiato per i "bianchi", fu coinvolto in un clamoroso caso politico-spionistico e fu fucilato, la figlia maggiore arrestata. Il figlio maschio morì in guerra nel ’41 e "la vita diventò quel luogo dove non si può vivere". Le forze se ne andavano, per la fame perdeva i capelli, si sfigurava, finchè vide una trave nel soffitto che fu il suo punto di arrivo a 49 anni. Fu sepolta in una fossa comune.
Scrisse liriche e versi e le famose nove lettere in prosa sull’amore, conosciute con il titolo "Le notti fiorentine". Di lei, così incompresa e disperata, ci piace ricordare questi versi.
Mondo, cerca di capire! Il poeta – nel sonno, scopre
la legge della stella e la formula del fiore.
E ancora altre voci femminili intense si rivelano in una panoramica che abbraccia almeno 20 donne dall’ottocento in poi. Oltre a quelle ora citate, vi sono la polacca Maria Krysinska, le francesi Anne de Noailles, Marie Noël, Louise de Vilmorin e Simone Weil, la tedesca Ingeborg Bachmann. Le lega un denominatore comune poiché l’amore, l’abbandono, l’esperienza del dolore e l’indignazione per l’ingiustizia sono l’elemento stesso della loro poesia.
Alcune si sono impegnate nel sociale, come la Desbordes-Valmore, la Negri e la Bachmann, altre si sono ripiegate in un lirismo soggettivo, ma nessuna si è sottratta ai grandi sentimenti, ai misteri dell’esistenza che accomunano tutti, uomini e donne.
Attualmente è più che mai importante il senso della poesia per sollevarci dal quotidiano, da una società piena di violenza, da una realtà colma di materialismo che forse non ci piace, nella quale o non ci ritroviamo o cerchiamo di orientarci con fatica.

E oggi sono numerose le donne che cercano di dare voce poetica ai loro sentimenti e che si affiancano agli uomini, come in ogni campo, non per insidiare loro quella supremazia che finora hanno sempre avuto, ma solo per condividere la gioia che la poesia dà in ogni momento, sempre e comunque.( articolo di M. Patrizia Bianchi Cecchini)

                                                                                                           


domenica 11 dicembre 2011

C'ERA UNA VOLTA ....IL ROMANZO d' AVVENTURA .....3a parte


Un luogo comune, specie in passato, è stato quello di appaiare Jules Verne ed Emilio Salgari, in quanto fra loro contemporanei e considerati autori per la gioventù.
 Ma, lasciando da parte i luoghi comuni, le cose non stanno proprio così. La  differenza va ricercata nello spirito con cui entrambi scrivevano i loro libri e, soprattutto, nel pathos che li caratterizzava.
Nel senso che in Salgari c’era, in Verne quasi per nulla, anche nei suoi romanzi più avvincenti e drammatici (come possono essere Ventimila leghe sotto i mari e I figli del capitano Grant) una  vibrante immaginazione evasiva, un  grande desiderio di avventura e di grandi eroi selvaggi, una fantasia lussureggiante e  barocca.
 Personaggi sanguigni e romantici come il Corsaro Nero e soprattutto Sandokan, non sarebbero mai potuti uscire dalla penna dello scrittore francese (forse soltanto il capitano Nemo vi si avvicina un po’).
Mentre  la tipicità verniana è quella della anticipazione scientifica o della introduzione nei suoi romanzi dell’uso o dello sviluppo più avanzato di certe invenzioni già note alla scienza tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, tanto da far comunemente inserire lo scrittore francese acconto a Herbert George Wells come precursore e addirittura “padre” della moderna fantascienza, al contrario Emilio Salgari non era molto portato per la speculazione avveniristica e raramente inserì nel complesso delle sue opere marchingegni e macchinari che andassero oltre la tecnologie del proprio tempo, a parte forse lo Sparviero, la strordinaria “macchina volante” presente ne I Figli dell’Aria (1904) e Il Re dell’Aria (1907).
Ci sono due romanzi di Salgari e di Verne che hanno una affinità talmente inattesa e sorprendente da consentire un parallelo fra essi al punto da rivelare una curiosa consonanza di idee, più unica che rara. Parallelo che però si è potuto scoprire soltanto dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, come si dirà. Ci riferiamo a due opere, le uniche in sostanza in cui il francese e l’italiano, a differenza dell’inglese Wells, hanno proiettato chiaramente ed esplicitamente in un per loro lontano futuro l’immaginazione. Si tratta di Paris au XX siècle scritto nel 1863, rifiutato dall’editore Hetzel e pubblicato soltanto nel 1994, in cui si descrive la Parigi del 1960, e di Le meraviglie del duemila scritto nel 1903 e pubblicato nel 1907 in cui si descrive il mondo del 2003.
C'è da aggiungere che Salgari stesso ammette di prender spunto dai romanzi
d'avventura di Fenimore Cooper ma anche dello stesso Verne, di cui talvolta
ricalca perfino le trame. Tuttavia, la critica accolse Verne assai favorevolmente
fin dagli esordi (e infatti Verne divenne ricco), mentre Salgari fu
sempre osteggiato, e molto soffrì dall'essere così sfavorevolmente
paragonato al collega francese.

Cosa accomuna questi due romanzi? Una visione pessimistica del nostro domani ed una idea non proprio positiva che gli effetti dello sviluppo tecnico-scientifico avrebbero prodotto sull’uomo e sulla società. Potrà sembrare sorprendente, ma sia il trentacinquenne esordiente romanziere francese, sia il già famoso trentanovenne scrittore italiano la pensavano nello stesso modo circa le famose “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità. Ma è esattamente così: nessuno dei due negava il progresso materiale o si dimostrava scettico circa il suo prodursi, ed infatti entrambi si diffondono nella descrizione di nuovi marchingegni di ogni tipo che in apparenza migliorano la vita delle persone, ma allo stesso tempo entrambi mettevano esplicitamente in guardia dal fatto che tutte queste novità tecnico-industriali non portassero alla fin fine un vantaggio spirituale, psicologico e addirittura culturale.(Relazione tenuta a Fiuggi il 18 marzo 2005, in occasione della Italcon 31).





 Jules VERNE

Romanziere ispirato dal progresso tecnologico, inventore di trame avveniristiche ed anticipatrici, Jules Verne nasce l'8 febbraio 1828 a Nantes da Pierre Verne, avvocato, e da Sophie Allotte, agiata borghese.
A sei anni prende le sue prime lezioni dalla vedova di un capitano di lungo corso e a otto entra in seminario con suo fratello Paul. Nel 1839, all'insaputa della famiglia, s'imbarca come mozzo su una nave in partenza per le Indie ma viene ripreso dal padre al primo scalo. Il ragazzo dice di essere partito per portare una collana di corallo a sua cugina ma ai rimproveri del padre risponde che non viaggerà più che in sogno.
Nel 1844 si iscrive al liceo di Nantes e dopo la maturità è avviato agli studi giuridici. E' l'epoca dei primi tentativi letterari di Verne: alcuni sonetti e una tragedia in versi di cui non è rimasta traccia.
Tre anni dopo il giovane Jules si reca a Parigi per il suo primo esame di diritto e l'anno seguente, è il 1848, scrive un'altra opera drammatica che legge a una ristretta cerchia di amici di Nantes.
Il teatro polarizza gli interessi di Verne e il teatro è Parigi. Riesce quindi ad ottenere il benestare paterno per continuare gli studi nella capitale, dove arriva il 12 novembre 1848.
Si installa in un appartamento con un altro studente di Nantes, Edouard Bonamy: i due sono avidi di esperienze, ma essendo continuamente al verde sono costretti ad indossare lo stesso abito da sera a serate alterne.
Nel 1849 conosce Dumas padre che gli consente di rappresentare una commedia in versi nel suo teatro. E' un buon esordio per il giovane che riscuote i consensi della critica.
Jules non dimentica il diritto e l'anno dopo si laurea. Il padre lo vorrebbe avvocato, ma il giovane gli oppone un netto rifiuto: la sola carriera adatta a lui è quella letteraria.
Nel 1852 pubblica su una rivista il primo romanzo avventuroso, "Un viaggio in pallone", e nello stesso anno diventa segretario di Edmond Sevestedel, direttore del Teatro Lirico, che gli permette di rappresentare nel 1853 un'operetta lirica di cui Verne ha scritto il libretto in collaborazione con un amico.
Uno degli amici più cari del giovane scrittore è Jacques Arago, famoso viaggiatore del secolo XIX, che era solito raccontargli le sue avventure e fornirgli un'accurata documentazione dei luoghi da lui visitati: da questi colloqui sono nati con molta probabilità i primi racconti pubblicati sul giornale 'Musée des Familles'.
Nel 1857 sposa Honorine Morel, vedova ventiseienne con due figli, e grazie all'appoggio del padre di lei entra in Borsa come socio di un agente di cambio. Questa tranquillità finanziaria gli permette di intraprendere i primi viaggi: nel 1859 visita l'Inghilterra e la Scozia e due anni dopo la Scandinavia.
Siamo ormai agli inizi della vera carriera letteraria di Verne: nel 1862 presenta all'editore Hetzel "Cinque settimane in pallone" e firma con lui un contratto ventennale. Il romanzo diventa un best-seller e Verne può abbandonare la Borsa. Due anni dopo arriva "Viaggio al centro della terra" e nel 1865 "Dalla terra alla luna", pubblicato quest'ultimo sul serissimo "Giornale dei dibattiti".
Il successo è enorme: grandi e piccoli, ragazzi e adulti, tutti leggono i romanzi di Jules Verne che arriveranno nel corso della sua lunga carriera al considerevole numero di ottanta, molti dei quali tutt'oggi sono capolavori immortali.
Tra i più famosi citiamo: "Ventimila leghe sotto i mari" (1869), "Il giro del mondo in ottanta giorni" (1873), "L'isola misteriosa" (1874), "Michele Strogoff" (1876), "I cinquecento milioni della Begum" (1879).
Dopo i suoi primi successi nel 1866 Verne affitta una casa in una cittadina sull'estuario della Somme. Compra anche il suo primo battello e con questo comincia a navigare nel canale della Manica e lungo la Senna.
Nel 1867 si imbarca per gli Stati Uniti col fratello Paul sul Great Eastern, grande battello a vapore adibito alla posa del cavo telefonico transatlantico.
Al ritorno inizierà a scrivere il già citato capolavoro "Ventimila leghe sotto i mari". Nel 1870-71 Verne partecipa alla guerra franco-prussiana come guardacoste, ma ciò non gli impedisce di scrivere: quando l'editore Hetzel riprenderà la sua attività avrà davanti a sè quattro nuovi libri.
Nel 1870, per meriti letterari, gli viene conferita la Légion d'Honneur e viene nominato due volte presidente dell'Académie des Sciences, des Lettres et des Arts. Collabora inoltre, con la Societé de Géographie, alla redazione della Géographie Illustrée de la France.
Il periodo che va dal 1872 al 1889 è forse il migliore della sua vita e della sua carriera artistica: lo scrittore dà un grande ballo in maschera ad Amiens (1877) in cui il suo amico fotografo-astronauta Nadar, che gli servì da modello per la figura di Michael Ardan (Ardan è l'anagramma di Nadar), esce dalla navicella di "Dalla terra alla luna" nel bel mezzo della festa; sempre in quest'epoca (1878) conosce Aristid Brinad, studente al liceo di Nantes.
Ormai ricchissimo per la fortuna dei suoi libri in tutto il mondo, Verne ha i mezzi per conoscere direttamente i luoghi che ha descritto per informazione indiretta o ricreati con la sua fantasia. Compra uno yacht lussuoso, il Saint-Michel II, su cui si danno convegno i gaudenti di mezza Europa e viaggia a lungo nei mari del Nord, nel Mediterraneo, nelle isole dell'Atlantico.
Un giovane la cui identità è tuttora incerta (c'è chi vuole si tratti di un nipote diseredato) tenta di ucciderlo con due colpi di rivoltella nel 1886. L'anziano scrittore cerca in ogni modo di mettere a tacere lo scandalo, ancora oggi poco chiaro. L'attentatore fu frettolosamente rinchiuso in un manicomio.
Dopo quest'incidente Jules Verne, rimasto ferito, si abbandona alla sedentarietà: si ritira definitivamente ad Amiens dove viene eletto consigliere municipale nelle liste radicali (1889).
Morirà ad Amiens il 24 Marzo 1905 ,quasi cieco per la cataratta e sofferente di diabete,  colpito da paralisi. ( da biografieonline.it)
Anche se solo una piccola parte della sua produzione narrativa è inquadrabile nell'ambito del fantastico e solo quattro delle sue opere sono ambientate nel futuro, Jules Verne è ricordato come uno dei padri del romanzo scientifico, anticipatore della letteratura fantascientifica. Infatti riuscì ad anticipare scoperte che nei suoi libri sembravano essere pura fantasia ma che, più tardi, vennero effettivamente realizzate in maniera rigorosa e scientificamente provata. I romanzi ambientati nel futuro sono: Paris au XX° Siècle (1863), i racconti La Journée d'un Journaliste Américain en 2890 (1891), L'Éternel Adam (1957) e l'articolo Une Ville Idéale (1875).       
Curiosità: nel 1993 ha preso vita  il "Trophée Jules Verne", il record del giro del mondo con equipaggio sui più veloci mostri del mare .L’impresa è enorme, ma semplicissima. Si tratta di chiudere il cerchio del globo passando dai tre capi, Buona Speranza, Lewin e Horn. In tutto circa 21.800 miglia di oceani da bere. Il più rapidamente possibile.
per approfondire vi consiglio il sito : www.associazionegiulioverne.it


 EMILIO SALGARI
Giuseppe Carlo Maria Salgari nasce il 21 agosto 1862 a Verona, da Luigi
e Luigia Gradara, in una modesta casa al numero 7 di corso Porta Borsari.
La famiglia appartiene alla piccola borghesia di origine popolana -
gli antenati erano osti - il padre commercia in stoffe. Il cognome si
pronuncia con l'accento piano, Salgàri. Emilio sente presto voglia
d'avventura, a 16 anni è a Venezia, presso una zia, dove si iscrive
al primo corso del Regio Istituto Tecnico e Nautico. In qualche modo
passa tre mesi su una piccola nave da trasporto che batte l'Adriatico:
sarà questa la sua unica esperienza di marinaio, anche se in
seguito la sua fantasia gli farà dire di aver compiuto viaggi
memorabili (e dopo la sua morte anche il figlio Omar rincarerà
la dose), fino a fregiarsi del titolo di "Capitano". Scrive
alla fidanzata Ida, poi sua moglie, lettere che sono già romanzi
(Ida Peruzzi, di Ubaldino e Agostina Montrezot, nata a Verona nel 1868).
Nel 1883 è di ritorno a Verona, dove collabora a La Nuova Arena
come correttore di bozze finchè viene pubblicato a puntate La
tigre della Malesia
(dal 16/10/83 al 13/3/84), ed è l'inizio

del successo. Nel 1887 esce il suo primo volume presso un editore milanese
(Guigoni), La favorita del Mahdi. L'abate Galiani, che
è stato suo insegnante, gli suggerisce in seguito di trasferirsi
a Torino presso l'editore Speirani, attivo nell'editoria per ragazzi
(Il novelliere illustrato, La vacanza del giovedì, L'innocenza,
pubblicazioni che spariranno sotto la scure del Giornalino della
Domenica
). La famiglia arriva a Torino a fine 1892, dove per lungo

tempo deve fare quadrare il pranzo con la cena. E' vero che Emilio scrive
indefessamente - lavora contemporaneamente per tre editori: Speirani,
Treves, Paravia; a partire dal 1895 anche per Bemporad - ma i soldi
che arrivano o sono troppo pochi, o vengono mal impiegati: resta il
fatto che la mancanza di denaro sarà la cagione del disastro.

La produzione salgariana nel frattempo acquista una popolarità
immensa, grazie anche alle sapienti illustrazioni che gli editori procuravano
a corredo del testo, e perfino la Regina Margherita si congratula con
l'autore. Nel 1897 Emilio Salgari è nominato Cavaliere, e da
allora dedicherà la prima copia di ogni sua pubblicazione alla
Regina.
La casa editrice Donath lo convince a trasferirsi a Genova; in questi
anni stringe amicizia con i suoi pochi veri amici: il musicista Emilio
Firpo, l'illustratore Pipein Gamba, e Luigi
Motta, veronese come lui, e assai più giovane,

che in seguito nel divenne l'epigono.
Nel 1899 esce per Donath Il Corsaro Nero, uno dei successi
editoriali più strepitosi della storia.

A Genova la famiglia
si trova bene, tuttavia Salgari decide di tornare a Torino al volgere
del secolo. Qui la situazione economica peggiora sempre più,
e Salgari non trova di meglio che pubblicare altri testi sotto pseudonimo
(i suoi erano già una quarantina), ma si tratta di canovacci
un po' tirati via, e non hanno il successo delle avventure firmate Salgari.
Gli pseudonimi usati sono: Guido Landucci, Cap. Guido Altieri, E. Bertolini,
S. Romero. La moglie comincia a star male e dare segni di pazzia, i
figli crescono senza una guida, poiché lui passa le giornate
e le nottate a scrivere, scrivere, scrivere.

 Come ricordano in molti,
consulta continuamente atlanti ed enciclopedie, e soprattutto i giornali
con resoconti di viaggi e scoperte dell'epoca: si documenta scientificamente
per poter descrivere i luoghi esotici dei suoi libri. Cambiano spesso
di alloggio: via Morosini, via Superga, piazza San Martino, via Guastalla,
corso Casale; i soldi mancano sempre, anche se la produzione letteraria,
non si sa come, aumenta: negli ultimi cinque anni pubblica oltre venti romanzi.

 Sono gli anni in cui Salgari viene preso da una certa lucida
follia (per i dettagli rimandiamo alle biografie ufficiali), raccontati
in seguito dal figlio Omar, il quale mescola verità e invenzioni,
manipolato dallo spirito del suo tempo.        

Nel 1906 rompe il contratto con Donath e passa a Bemporad, per il quale
pubblica complessivamente 25 titoli. Enrico Bemporad si rende conto
che le trame sono più o meno le stesse e sollecita qualcosa di
nuovo: Salgari produce allora Le meraviglie del Duemila,
un testo pieno di anticipate invenzioni - quali la televisione - non
diversamente da ciò che fece Jules Verne con
La giornata
di un giornalista americano nel 2889

  Nel 1909 Emilio Salgari compie un primo tentativo di suicidio, gettandosi
su una spada. Lo trova la figlia Fatima. Nel 1910 la moglie si vede
costretta a scrivere a Bemporad sollecitando non si sa bene cosa (lamenta
comunque la soppressione dell'assegno mensile), ma l'editore risponde
seccamente di non essere uso a subire pressioni di nessun tipo.        

Nel 1911 le cose precipitano. Ida manifesta segni di follia e viene
ricoverata in una casa di salute, ma poiché Salgari non ha il
denaro per pagare la retta, la donna viene confinata in manicomio, cosa
che getta il marito nello sconforto. Il 22 aprile scrive numerose lettere
di addio, ai figli, agli editori, ai giornali. In tutte si dice rovinato
e senza un soldo, nonostante i "milioni di ammiratori", i
soli che gli abbiano dato soddisfazione. Il 25 si allontana da casa,
lo trovano la mattina seguente in un burrone nella valle di S. Martino,
dove appunto aveva scritto ai figli di cercarlo. Si era ferito al collo
e all'addome con un rasoio, ed era morto dissanguato. 

La morte dello scrittore non suscitò il clamore che forse egli si
aspettava, e il funerale fu fatto passare sotto silenzio dalle Autorità,
impegnate in quei medesimi giorni nelle manifestazioni per l'Esposizione
Universale; a seguire il feretro v'erano solamente dei giovani, dei
ragazzi con i libri sotto il braccio: i veri unici estimatori di Salgari.
Nemmeno i giornali diedero risalto all'accaduto, con l'eccezione de
La Stampa, che tra l'altro aprì subito una sottoscrizione
per aiutare i figli, alla quale aderirono due sole personalità:
Amalia Guglielminetti e Giacomo Puccini. La salma fu mandata a Verona,
dove fu accolta dalla famiglia Peruzzi e degnamente sepolta.
UNA FAMIGLIA DISGRAZIATA

Nel 1889 il padre dello scrittore commise suicidio, dando vita a ciò
che i posteri chiameranno la tara della famiglia: suicida sarà
Emilio, e suicidi i suoi figli. C'è da aggiungere che la moglie
Ida, sposata il 30 gennaio 1892, morirà in manicomio il 1°
ottobre 1922. Lui la chiamava Aida, e l'amerà per tutta la vita.
Ebbero quattro figli, anch'essi segnati da un destino avverso. La primogenita
Fatima (1892-1915) muore di tubercolosi - studiava canto e sembrava
quasi una promessa, ma non ebbe il tempo che di dare qualche concerto.
Nadir (1894-1936) ex-ufficiale della guerra libica, ferito sette volte,
decorato di medaglia al valore militare, muore in un incidente motociclistico.
Romero (1898-1931) militante negli Arditi, nella Grande Guerra si guadagna
due ferite e una medaglia d'argento al valor militare, ma in un accesso
di pazzia tenta di uccidere moglie e figlio e si suicida. L'ultimogenito
Omar (1900-1963) nella Grande Guerra rimane invalido, e trascorre la
vita in operazioni editoriali volte alla salvaguardia della memoria
paterna tuttavia accettando dagli editori tutta una serie di mistificazioni,
sia per la vita privata (si inventa i trascorsi esotici del "Capitano"),
sia per l'avallamento dei numerosi falsi salgariani che ebbero vita
nei decenni successivi. Sposatosi tardivamente, si getta dal balcone
di casa, a Torino.
per saperne di più visitate il sito
www.emiliosalgari.org

FALSI ED EPIGONI
"Gli imitatori di Salgari nascevano come funghi" dice Yambo.
Verissimo: impossibile contare tutti i pennivendoli assoldati in seguito
per sfornare i famosi "falsi salgariani". Purtroppo i mistificatori
più agguerriti provenivano tutti dalla cerchia privata dello
scrittore, a cominciare dai suoi stessi figli. E' Nadir, infatti, che
firma la prefazione di Le mie memorie (1928) di tal Lorenzo
Chiosso, che si fece delegare dal tutore dei ragazzi Salgari, lo zio
Ugo Peruzzi, a trattare con gli editori per i diritti delle trame e
dei titoli, il quale non si perita di rielaborare appunti e manoscritti
e di far passare per proprie le fantasie salgariane. Un altro epigono,
ma di ben altra tempra, è Luigi Motta, autore di un centinaio
di romanzi d'avventure, scritti senza quella passione che Salgari immetteva
nei suoi testi, e che tuttavia gli fruttarono l'agiatezza con l'editore
Bemporad. Motta era stato buon amico di Emilio Salgari, e da questi
incitato a scrivere (e lo chiamava "Capitano" Motta…);
tuttavia anch'egli non si perita di pubblicare numerosi titoli con il
doppio cognome Salgari-Motta, al fine di attirare il pubblico; e anch'egli
infine fu accusato da un tipografo di essere solo un prestanome. Peraltro,
i figli stessi portavano agli editori (Bemporad soprattutto) i pochi
appunti slegati tra loro che il padre aveva lasciato, spacciandoli per
"trame", tal che costoro assoldavano i ghost-writers affinchè
producessero testi assimilabili a quelli salgariani. Numerosi romanzi
uscirono infatti con il nome di Emilio Salgari in copertina come autore,
e sul frontespizio la dicitura "romanzo postumo tratto da trama
lasciata dall'Autore e pubblicata a cura di Nadir/Omar Salgari".
Tra i ghost-writers salgariani vi furono anche anche Paolo Lorenzini
e Sandro Cassone; il più prolifico fu Giovanni Bertinetti (17
"falsi", più la biografia Mio
padre Emilio Salgari
(1940), firmata da Omar Salgari; inoltre

vi furono innumerevoli riedizioni di vecchi testi con il titolo cambiato.
Insomma, fiorirono innumerevoli volumi nuovi e trame vecchie, in un
crescendo di confusione editoriale e legale tra gli eredi e le case
editrici. Un'altra mistificazione fu la produzione successiva di prodotti
derivati (ai nostri giorni sarebbero gadgets e cappellini) quali fumetti,
giornalini, circoli "amici di Salgari", e tutto ciò
che poteva fregiarsi della magica parola. Famose sono le figurine Salgari
della Liebig e della Tato, nonché le cartoline edite da Carroccio.


Negli anni Trenta e Quaranta vi fu un nuovo entusiasmo editoriale che
portò ad innumerevoli ristampe, favorito dalla campagna di valorizzazione
operata dal regime, che tuttavia presentò lo scrittore come precursore
dello spirito fascista e imperialista. La critica del dopoguerra si
occupò di Salgari in modo più equo, e infine seppe riconoscere
- a partire dagli Anni Settanta - il vero valore del Maestro e a ridargli
la dignità che gli compete. Una sapiente e intelligente moderna
filologia ha saputo inoltre discernere le vere opere salgariane da tutto
il resto.
In totale i testi riconosciuti di Emilio Salgari sono 87, i testi detti
"falsi" sono 58. I racconti sono numerosi, sia per le riviste
per ragazzi sia per le collane: Biblioteca giovanile illustrata,
Bibliotechina aurea illustrata
dell'editore Biondo, Nuova collezioncina

dell'editore Carabba, Piccole avventure di terra e di mare dell'editore
Speirani. I racconti per la gran parte appaiono con lo pseudonimo di
Cap. Guido Altieri.


I TITOLI DI BEMPORAD


I titoli dei 25 romanzi originali scritti da Salgari per l'editore Bemporad sono
qui sotto elencati. A fianco, la pagina pubblicitaria per l'ultimo titolo,
da un catalogo Bemporad del 1916. Di seguito diamo alcuni esempi della
prima edizione, quasi tutte illustrate da Alberto Della Valle, e delle
ristampe successive, con particolare attenzione alla riedizione del
1928, che comprende naturalmente anche i "falsi" curati da
Nadir Salgari. La versione editoriale del 1928 (e segg.) mantiene l'unità
d'immagine della cover, con il disegno riquadrato in nero, ed è
firmata dagli artisti dell'epoca, tra i quali Dario Betti, Fabio Fabbi,
Attilio Mussino, etc.      
        


1895

1896

1906

1907









1908







1909







1910







1911





1913

1915


Un
dramma nell'oceano Pacifico

Il re della prateria

La stella dell'Araucania

Le meraviglie del Duemila

Il tesoro della Montagna Azzurra

Il re dell'aria

Sandokan alla riscossa

Sull'Atlante

La riconquista del Mompracem

Il figlio del Corsaro Rosso

Sulle frontiere del Far-West

Gli ultimi filibustieri

La scotennatrice

Una sfida al polo

La Bohème italiana

I corsari delle Bermude

Le selve ardenti

Il leone di Damasco

La crociera della Tuonante

Storie rosse

Il bramino dell'Assam

I briganti del Riff

La caduta di un impero

La rivincita di Yanez (postumo)

Straordinarie avventure di Testa

di Pietra (postumo)

per approfondimenti sulle sue opere vi consiglio il sito : www.liberliber.it/libri/s/salgari/index.htm
e  pure www.emiliosalgari.it