domenica 18 dicembre 2011

Le DONNE e la POESIA





LE DONNE E LA POESIA

Guardando indietro nella storia pochi, pochissimi nomi di donne poeta si sono affiancati a quegli degli uomini e di alcune di coloro che avrebbero potuto essere alla medesima altezza è rimasta appena una traccia. Dal tempo di Saffo, donna intelligente e sensibile, vissuta a Lesbo sulle coste dell’Asia Minore tra la fine del secolo VII° e l’inizio del VI° a.C. che ci ha lasciato frammenti di versi delicatissimi, per molti secoli c’è stato il silenzio. Più tardi ben poche poetesse hanno potuto mettersi in evidenza trovando un posto, pur se piccolo, nella letteratura. Perché?
La donna era troppo costretta da codici e regole nell’ambito familiare, non aveva accesso agli studi, non poteva educare il suo "afflato poetico" e non era in grado di acquisire quegli elementi di base che consentissero di dargli un’espressione dignitosa e toccante. Questa tensione poetica deve essere sostenuta dalla ricerca delle parole, da una capacità di sintesi, di armonia e di equilibrio perché la musicalità del verso non perda di incisività e di bellezza. Eppure le donne non mancavano di intelligenza e di sensibilità e neanche del "senso o afflato poetico" che tutte hanno.
Infatti chi di noi non prova una speciale commozione alla vista di un bambino piccolo, di un paesaggio eccezionalmente bello o quando è toccata dall’amore? Chi di noi non avverte, tanto per fare un esempio, lo struggimento del tempo che passa, o la tenerezza verso i nostri cari che se ne vanno? Anche le donne più concrete, più immerse nel fare e nel reale hanno momenti in cui il loro senso poetico potrebbe trasformarsi in "poesia". Se questo non accade è perché non possono fermarsi per dargli spazio e voce, approfondirlo e soprattutto perché mancano dei mezzi tecnici necessari per farlo. E’ vero che la poesia è "un tocco di grazia", ma va anche saputa creare e supportare.

Del 1200 in Italia ci rimangono tre sonetti di una poetessa nominata "Compiuta Donzella", cioè donna raffinata, completa, della quale non conosciamo il vero nome, la patria, la condizione sociale, Certamente visse nel XIII° secolo in Toscana, appartenne ad un ceto elevato ed ebbe un’educazione e una cultura molto rare in tempi in cui l’analfabetismo era diffusissimo e specialmente fra le donne. La sua è una testimonianza preziosa. In un sonetto esprime la sua inquietudine per il matrimonio a cui il padre la vuole obbligare e la sua ribellione che non manca di slancio e forza, pur essendo espressa con malinconica grazia. Ella teme che i doveri, gli obblighi e le occupazioni che questa nuova condizione le comporterà le tolgano il suo spazio, il suo "respiro", in poche parole un tempo tutto per sé. Il che è vero e non è vero. La maggior parte delle donne poeta è stata ed è sposata e non ha perso il suo "respiro". Poiché non esistono doveri così schiaccianti e assoluti che possano spegnere e soffocare del tutto l’afflato poetico.
Bisogna arrivare al Cinquecento con Gaspara Stampa (1523-1554) per avere le prime poetesse di un certo valore, donne vissute alle corti dove non mancavano libri e letterati con cui scambiare opinioni, insegnamenti ed esperimenti poetici. Le poetesse del Cinquecento furono tutte donne di cultura, sia le signore e principesse come Vittoria Colonna (1490-1547) e Veronica Gambara (1485-1550), sia le cortigiane "oneste" come Veronica Franco (1546-1591) e Tullia d’Aragona (1510-1556). Singolare presenza quella delle cortigiane nell’Italia del Rinascimento, così vistosa e riconosciuta da assumere l’aspetto di un’istituzione. Roma e Venezia ne contavano un gran numero e alcune di esse sapevano a memoria il Petrarca, leggevano i classici latini, rimavano sonetti, suonavano e cantavano. Aggiungevano alla miseria del loro mestiere una personalità più alta, spirituale e artistica che le innalzava nell’opinione della gente. Vedevano ai loro piedi letterati insigni, grandi artisti, potenti prelati e anche re. Nelle loro rime si trova un platonismo amoroso, un che di manierato, ma anche di elegante.
Fra gli spiriti più sinceri si distinse Gaspara Stampa, bella e intelligente, morta a 31 anni a Venezia, che uscì da questi schemi per la passionalità e la forza per cui proclamò il diritto della donna ad amare sempre e comunque fuori da ogni sanzione legale.
 Suo è il celebre verso:
"vivere ardendo e non sentire il male"
Le sue rime furono pubblicate postume dalla sorella, ma furono rivalutate solo nell’Ottocento.

Accanto a lei la tragedia della siciliana Isabella di Morra (1520-1545), pugnalata dai fratelli a venticinque anni per una colpa non commessa, riporta i toni al più cupo e torbido Medioevo. I suoi versi sono così schietti e strazianti che fanno di lei un "caso particolare" che non ammette paragoni.

Ben più celebre, tuttavia, resta Vittoria Colonna, dalla malinconia raccolta e dall’alta tempra morale, forse per la sua sorte di giovanissima vedova e la sua amicizia con Michelangelo che le fu devoto e avvolse il suo sentimento per lei in alte forme spirituali.

Ricordiamo velocemente anche Veronica Gambara, soprattutto per la nobiltà del suo stile. Ecco dunque che in questo periodo alcune donne possono far valere la loro voce e i palpiti dell’anima attraverso la cultura.

Nel Seicento dilagò l’aspirazione a comporre poemi e pure la gentildonna veneziana Lucrezia Marinella volle cimentarvisi con l’ "Enrico ovvero Bisanzio conquistata" che trattava di Enrico Dandolo e della quarta Crociata. Poi c’è stato un periodo di silenzio.

Però dalla seconda metà dell’Ottocento in poi anche le donne, specialmente di classi alto-borghesi, cominciano ad affacciarsi ai corsi superiori di studi e, per mezzo della cultura, hanno modo di far valere il loro genio. Perché non sono tanto gli studi regolari il vademecum per la poesia, quanto e soprattutto la cultura in generale. Prendiamo ad esempio alcuni casi di donne colte delle quali tratteremo parzialmente le vicende di vita:

Marceline Desbordes Valmore, definita da Paul Verlaine e confermata da Rambaud, poeti affermati, "la sola donna di genio e di talento di questo secolo (il XIX°) con George Sand". Attrice, cantante nei migliori teatri di Parigi, aveva un orecchio sensibilissimo e si era impadronita di tutti i segreti del verso e della rima, studiando a memoria i classici della letteratura francese, ad esempio Racine, sfiorando appena la scuola regolare. (Ognuno in genere attinge soprattutto alla letteratura nazionale perché nella traduzione dei poeti stranieri, anche se ottima, qualcosa si perde).
Tutti i maggiori poeti e letterati di Francia, Baudelaire, Hugo, Saint Beuve etc., erano rimasti incantati da quella donna che incarnava come pochi lo spirito del tempo, cioè del Romanticismo declinante e del primo Simbolismo, e la chiamavano maestro e la osannavano, ma che più tardi ha trovato scarso spazio nelle antologie o è stata ignorata. Perchè? Probabilmente perché donna e quindi di serie B.
Nata a Donai nella Fiandra Francese nel 1786, aveva avuto una vita tempestosa e sfortunata. Il padre era stato completamente rovinato dalla Rivoluzione. La madre la costrinse da bambina a recitare in compagnie girovaghe da città a città tra disagi e miserie. Poi la madre la trascinò a 15 anni a Guadalupe dove avevano un cugino e dove la madre morì di febbre gialla. Ci fu poi un terribile terremoto e lei rientrò in Francia. A 22 anni è già conosciuta come poetessa ed ha già pubblicato su riviste. Incontra uno scrittore importante, Henry de Latouche, se ne innamora follemente. Ha un figlio. Lui fa lunghi viaggi, la trascura.. Marceline spera e si dispera senza tregua:

Taci, sorella, ché il passato brucia.
Taci il suo nome, ché il suo nome è lui.
Ostinarsi sui beni perduti
è come andar con l’onda che ripiega.
Quel nome che mi è ardore e mi è dolcezza,
quel nome, quando appena ora mi tocca,
come un fuoco mi avvampa nella bocca.
Sorella, non parlare.
Pochi hanno saputo scavare così profondamente nei rapporti uomo-donna, analizzare le frustrazioni dell’animo femminile di fronte allo spirito inquieto dell’altro che sa amare, ma è sempre attratto da un altrove, da altre avventure e viaggi. Come l’eterna storia di Penelope ed Ulisse. Per venti anni quell’uomo la illumina e la perseguita nei suoi capolavori.
Nel frattempo il figlio muore e lei sposa un attore bello e mediocre che cerca di aiutare. Le nascono altri quattro figli, dei quali tre le premoriranno. Col marito si instaura un rapporto di solidarietà e indulgenza, ma è sempre perseguitata dai disagi e dalla povertà. Ha scritto anche poesie politiche in opposizione all’Impero di Napoleone III. Muore di cancro nel 1859.
Ma non occorrono grandi avvenimenti, avventure o dolori per stimolare la poesia. L’americana
Emily Dickinson
(1830-1886) ha avuto una vita piatta e povera di avvenimenti. Ha cantato le piccole cose: la nascita della sorella, la scuola, le visite ai parenti. La sua vita si svolge tutta all’interno, i suoi occhi guardano in dentro nella monotonia austera della vita borghese dei puritani, tuttavia nelle sue pagine ha lasciato il segno di una grande profondità e di spirito acuto, pronto anche alla battuta e all’umorismo.
In una vita svolta fra casa e chiesa incontra il reverendo Charles Wadsworth, sposato e con figli, che diventerà la sua stella fissa per sempre nella sua immaginazione, per il quale scrive molte poesie:
Io canto per riempire l’attesa:
annodarmi la cuffia,
richiudere la porta di casa,
nient’altro mi resta da fare,
finché risuoni vicino il suo passo,
e insieme si cammini verso il giorno,
narrandoci a vicenda come abbiamo cantato
per scacciare la tenebra.
Negli anni egli fa qualche breve visita in casa di Emily. Per lei sono lampi d’insostenibile luce. Più tardi un altro legame intellettuale e affettivo importante fu il giudice Lord, amico del padre. Si trattò comunque di una storia platonica. Se Emily non fosse stata scoperta da due importanti critici letterari, Thomas Higgins, che lei considerò suo maestro, ed Helen Jackson non avrebbe mai pubblicato. Infatti in vita pubblicò solo tre poesie (anonime) fra le centinaia che aveva scritto, tanto era gelosa dei suoi sentimenti e per niente desiderosa di notorietà.
La sua fama si affermò quasi subito dopo la sua morte avvenuta nel 1886 a 56 anni, perché, come lei dice in uno dei suoi epigrammi: "il potere e la groria sono doni per dopo la morte". E la morte non fa paura a chi vive con tanta intensità interiore.
E come pure la giovane
Iulia Hasdeu
(1869-1888), la più grande poetessa rumena che condensò in 18 anni tutta una lunga vita, lasciando un’opera immensa in poesie (delle quali 300 in francese a rima alternata o baciata), in prose, in studi filologici e filosofici e un fitto carteggio con amici rumeni e il padre. Sapeva benissimo il francese e altre lingue e aveva studiato tutti i classici. Nata nel 1869, viene avvicinata al destino del Leopardi per le conseguenze del suo immenso amore per i libri e per il suo studio "matto e disperatissimo" e a Rimbaud per aver scritto prima dei diciannove anni tutto quanto il destino le imponeva di scrivere. Ammessa alla Sorbona a Parigi (cosa eccezionale per una donna), si ammala di tubercolosi. Lo sforzo prolungato per passare con anticipo tutti gli esami rispetto ai suoi coetanei le fu fatale.
Raro caso di genio, ebbe il primato della precocità e delle sofferenza, ma resta la poetessa più sconosciuta. Non ebbe infatti il tempo di diventare celebre. Ella fu consapevole della sua fine, fino in fondo:
Ahimé, mi sento vecchia. Un macigno mi opprime.
Ignoro la mia età, ma sento a poco a poco
che una mortale inerzia, così contraria al fuoco,
troppo presto m’invade …
Le sue opere furono fatte pubblicare a Bucarest a cura del padre (Confidenze, versi, prose, corrispondenze).
Ebbe invece ben diversa fortuna
Else Lasker-Schüler, ebrea, chiamata "Il cigno d’Israele". Visse gli anni più intensi della grande Berlino e della grande Vienna culturale con i nomi più belli che sono ancora vivi nel pensiero europeo (Karl Kraus, Rainer Maria Rilke, Schönberg e altri). La sua massima ambizione fu quella di rappresentare, in spirito d’amore, l’anello di congiunzione fra ebrei e cristiani.
Nata nel 1869 da un rabbino e da una poetessa di origine spagnola, insieme ai suoi fratelli fu coccolata e privilegiata in una meravigliosa infanzia e in una splendida adolescenza. Ma la seconda parte della sua vita fu segnata da legami sbagliati, da solitudine, malattie, povertà cronica e dalla grande avventura di andare nel nascente Stato di Israele. C’è una sua poesia "Dolore cosmico" che in soli sei versi segna in modo struggente il passaggio fra il prima e il dopo. E’ tratta da "Stige", la sua prima raccolta
Io, l’ardente vento del deserto,
mi raffreddai, presi forma.
Dov’è il sole che possa liquefarmi,
dove il lampo che sappia frantumarmi!
Ora il mio sguardo è d’ira, una petrosa
testa di Sfinge volta a tutti i cieli.
Ebbe due mariti e un figlio da un amore rimasto sconosciuto. Specialmente il secondo marito, artista e musicista, e il figlio ispirarono molte delle sue poesie:
Sempre prona sono stata al mormorio del mio cuore,
mai ho veduto il mattino
e mai cercato Dio.
Ma ora cammino intorno ai versi d’oro
tessuti nelle membra di mio figlio,
e cerco Dio.
In "Ballate ebraiche" evocò gli eroi della Bibbia. Piccola e magra, coi capelli e gli occhi neri, vestiva in maniera originale, era una forza della natura, generosa, geniale, dal cuore ecumenico. Dopo il suo ingresso a Gerusalemme nel 1937 divenne una personalità di grande rilievo. Un critico svizzero la definì "la più forte e impervia apparizione lirica della moderna Germania che aveva visto e detto le cose del mondo come nessun altro prima di lei".
Ormai siamo ben lontani dai soli temi amorosi del Rinascimento e si approda a un respiro più vasto, ad accogliere temi sociali e umani.
Classico esempio italiano è la nostra
Ada Negri
(1870-1945) che, insieme ad Amalia Guglielminetti e Sibilla Aleramo, ebbe il suo momento di gloria durante la vita. Nella sua opera sono riscontrabili due momenti o forse due maniere. Nelle sue prime creazioni è stata violenta, socialista, accesamente polemica contro il mondo borghese, orgogliosa della miseria della sua famiglia di operai. Per lei studiare era stato quasi un atto eroico. Presto orfana di padre, diventò una lettrice appassionata soprattutto di Carducci e D’Annunzio. Divenne maestra e a diciannove anni ottenne la sua prima assegnazione stabile. Per lei era il riscatto. Non avrebbe mai lavorato in un orrendo opificio dove le condizioni dei lavoratori erano terribili, non diverse da quelle degli operai inglesi del primo ottocento, come le racconta Dickens. Avrebbe potuto istruire altri figli di operai.
Ada scrive molto. L’autorevole critico Raffaello Barbiera le pubblica su "l’Illustrazione Italiana" alcune poesie e quando esce "Fatalità" Ada può già considerarsi nell’Olimpo dei nomi che si discutono e si studiano. Il libro è veemente, mosso nei ritmi, appassionato, irruente, ricco di argomenti. Da "Fatalità" a "Esilio" del 1914 commuove tutti i cuori cantando i poveri, gli umili, gli oppressi e anche i peccatori con una profonda sincerità e umanità.
Nelle basse casupole sconnesse,
nel rozzo cascinale
ove penètra per le imposte fesse
la raffica invernale,
ove del foco sul tizzon che geme
l’ignavia si accovaccia,
e la pellagra insaziata freme
gialla e sparuta in faccia
Più tardi divenne professoressa per chiara fama alla Scuola Normale Gaetana Agnesi di Milano e sposò un industriale di Biella. Nel 1904, quando esce il libro "Maternità", una intensa e nuova dolcezza si esprime in versi più moderati e distesi. Pian piano diminuiscono i temi sociali per dar spazio a un lato più artistico e intimo. Nel libro di "Mara" del 1919 si riscontra per la prima volta anche l’esperienza della poesia della passione.
Ed io cammino appesa al tuo braccio; e mi stringo al tuo cuore;
e se dir t’odo il mio nome, impallidisco come chi muore.
Nel 1931 le viene conferito uno dei Premi Mussolini dell’Accademia d’Italia e nel 1940 viene eletta, prima e ultima donna, membro dell’Accademia stessa. La sua notorietà fu in continua ascesa fino alla morte.
Minor fortuna ebbero la povera Mariannina Coffa (1841-1878), siciliana, che fu costretta dalla famiglia a lasciare il suo unico amore e morì a trentasette anni, o Vittoria Aganoor Pompilj (1855-1910), padovana di nobile famiglia. Considerata uno dei più importanti poeti sulla fine del secolo e un po’ schiacciata dalla presenza dei tre grandi, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, fu tanto osannata in vita quanto poi trascurata dalla storia della letteratura.
Questo del resto capita alle grandi figure che non abbiano avuto la precauzione di accogliere un famoso avvertimento degli Arabi: mai nascere donna. Educata da Giacomo Zanella, lodata da Benedetto Croce, predilesse il verso libero, sciolto, indice di modernità, anziché la rima.
Ti ricordi l’odor del caprifoglio
là nel giardino, nelle sere estive
sotto le stelle che pioveano raggi
e promesse e sospiri? …
Condizionata dalle convenzioni mondane, fece vita riservata curando la madre fino a 46 anni, poi si sposò con l’onorevole Guido Pompilj, parlamentare in vista, e cominciò per lei una vita felice a Perugia, dove visse un’altra poetessa, Maria Alinda Brunamonti Bonacci, con la quale instaurò un legame di amicizia e di stima. Pubblicò nel 1900 il libro "Leggenda eterna". Il suo fu un matrimonio unico, perfetto. Morta lei a 55 anni, il marito si uccise con un colpo di pistola.
Ben altro temperamento quello di
Amalia Guglielminetti
(1885-1941), nata a Torino in una famiglia austera e un po’ retriva, preoccupata solo della sua bellezza e vivacità che doveva costantemente reprimere. Educata dalle monache, per contrasto tutto era in lei voglia di provocazione, di gustare ogni frutto proibito, di scandalizzare con le sue poesie e i suoi drammi. Ne "Le vergini folli" del 1907, e poi "Le seduzioni", "L’amante ignoto" ed altre sue produzioni c’è una simbologia erotica diventata di moda con Guido da Verona e Pitigrilli. Nel suo volto di poeta si riconoscono alterigia, rifiuto dei miti casalinghi, sfrenatezza sensuale, slancio ed esibizionismo. Ma insieme un bruciante senso di solitudine e di alienazione.
Così il male durò. Più tentatore
d’allora, a tratti, il tuo volto mi abbaglia.
Curiosità di te mi punge il cuore,
desiderio di te me lo attanaglia.
Molti l’ammirarono, molti la criticarono. Nel 1923 il romanzo "Quando avevo un amante" le procurò un processo per oltraggio al pudore. Non si sposò mai, perché non trovò mai l’uomo giusto che fosse all’altezza della sua intelligenza e del suo anticonformismo. Amò il poeta Guido Gozzano, la cui personalità la mise un po’ in ombra come autrice. Lo avrebbe anche sposato se lui glielo avesse chiesto, ma Guido non voleva nessuna per aridità e impotenza sentimentale e la malattia tubercolare. Così ebbero solo un amore platonico e un fitto epistolario.
Peraltro lui la considerò molto come autrice e donna e soprattutto come vera amica. La critica, che non le fu favorevole, ha sottolineato la ristrettezza dei suoi orizzonti, il suo sguardo miope sulle tragedie del suo tempo, su tutto ciò che non fosse sensibilità e casistica amorosa, tutta tesa a penetrare il nucleo incandescente dell’erotismo, a cesellare i suoi versi come Benvenuto Cellini i metalli preziosi.
Come tematiche esistenziali fu in netta contrapposizione con Ada Negri, ma Amalia non aveva quella sofferta esperienza dei diseredati e degli operai degli opifici, comune all’altra. Furono donne diverse, ognuna con talento diverso. Anche se ebbe successo con commedie brillanti come con "Nei e cicisbei" in cui profuse arguzia e spirito indiavolato, dieci anni dopo la sua scomparsa a soli 56 anni nel 1941, se non fosse per l’epistolario con Gozzano, pubblicato nel 1951, di lei non rimarrebbe quasi traccia.
Tutte le poetesse che hanno avuto il coraggio di scoprirsi, di mostrare a tutti il loro cuore e le loro passioni politiche o private sono state tacciate di femminismo. E il femminismo come forza morale, come lotta a secolari pregiudizi, nel periodo di dieci anni, più o meno corrispondenti al primo dopoguerra, fu incarnato nell’America Latina da quattro straordinarie figure femminili che nacquero nello spazio di pochi anni, dal 1889 al 1895. Sono: Gabriela Mistral, cilena, Delmira Agustini (1890-1914) e Juana de Ibarbourou (1895- 1980), uruguayane e Alfonsina Storni, argentina.
Ricche di una sensualità filtrata attraverso la più raffinata cultura all’interno della loro particolare originalità, esse riflettono i grandi movimenti europei, dal Simbolismo al Surrealismo al Futurismo, di cui la psicoanalisi andava sempre più nutrendo la poesia. Con
Gabriela Mistral
(1889- 1957), premio Nobel per la poesia nel 1945, ascoltiamo la voce degli Indios del Cile che subirono con particolare crudezza la colonizzazione spagnola. Avviliti in condizioni di vita infime. essi conservano l’antica dignità in un chiuso silenzio che la Mistral interpreta nei suoi elementi di dolore, di rabbia, di stanca tristezza. Ella stessa di stirpe india (il suo vero nome era Lucila Godoy Alcayaga) e grande amica di Pablo Neruda col quale condivise lo sdegno politico contro la dittatura, nel ’48 fu console a Napoli. Più tardi si ritirò a New York, povera perché con i soldi del Nobel aveva aiutato tanti esuli politici, dove tirò avanti facendo conferenze all’università. Morì di leucemia, la stessa malattia di Evita Peron che tanto aveva odiato.
La vicenda di
Alfonsina Storni


(1892- 1938), è semplice ma profondamente drammatica. Nata in Svizzera nel Canton Ticino da padre italiano, emigrò in Argentina. Bella ragazza, sempre sorridente, diventò maestra elementare a 18 anni, come Gabriela Mistral e Ada Negri, si trasferì a Buenos Aires e frequentò i circoli letterari, unica donna. Di idee liberali, lottò contro le convenzioni sociali e ogni forma di ipocrisia e seppe dare con la sua poesia raffinata la più acuta rappresentazione della grande città moderna, cantata anche dal poeta Borges, ricca di fermenti ma alienata, fragorosa e spietata. La città della solitudine.
Malinconiche strade uguali, tutte grigie,
fra cui talvolta spunta un pezzetto di cielo.
Quelle buie facciate e l’asfalto del suolo
hanno spento ogni tiepido sogno …
Divenne docente di letteratura e di declamazione poetica al Conservatorio Nazionale. Fra il 1930 e il ’34 fece un lungo viaggio in Europa. Ebbe un figlio illegittimo. Già malata di cancro, si uccise a 46 anni gettandosi nel Mar de la Plata. Personalità amara e disincantata, scrisse diverse raccolte fra le quali "Ocra" del 1925, considerato il suo capolavoro. Nello stesso anno 1938 in cui la Storni si uccide, si toglie la vita a 26 anni anche un’altra importante poetessa milanese,
Antonia Pozzi
(1912-1938), stendendosi sulla neve dopo aver ingerito 40 pasticche di sonnifero. Di una infelicità esistenziale nel tempo della sua prima gioventù, provò molta serenità, dovuta al suo grande amore per il creato e soprattutto per la montagna e una vibrante riconoscenza per il suo esistere.
tu sana, venata di sole,
porti sul grembo
il cielo tutto azzurro,
chiami voli d’uccelli
alle tue mani
colme di vento.
Ragazza coltissima, di sterminate letture, pronipote di Tommaso Grossi, figlia di un’aristocratica e di un grande avvocato milanese, fu la tipica figlia unica di eccezionale talento, amatissima e un po’ soffocata nel suo spazio vitale. Aveva tutto, ma lei era un’anima ardente, desiderosa di austerità, concretezza. E si sentiva felice non fra la ricca borghesia lombarda, ma fra i montanari e i pastori della Valsassina, dove trascorreva le vacanze a Pasturo. Quel senso di vuoto e di alienazione dalla società in cui viveva si accentuò per due storie d’amore finite male e il senso della morte e l’ombra ossessiva del suicidio cominciarono a pervadere le sue poesie, i suoi saggi e le sue lettere. La vera chiave del suo dramma si cela nella solitudine. Forse sarebbe stata la più grande poetessa del novecento, se fosse vissuta più a lungo. Di lei ci rimane una sola raccolta, "Parole".
Avrete notato come alcune di queste donne siano morte in età giovanile, o per malattia o in conseguenza della disperazione. La Storni, la Pozzi, la russa Marina Cvetaeva. Alcuni hanno voluto vedere in questi tragici eventi delle connessioni col fatto di essere donne troppo profonde, quasi alienate dal loro guardarsi dentro e scrutare nel mistero profondo dell’esistenza. Da tempo viene infatti dibattuto il tema del possibile influsso della depressione sull’arte e in particolare sulla poesia. Si vuole trovare cioè un collegamento fra la condizione di disagio esistenziale che favorisce un avvicinamento all’arte e una realizzazione in essa, e pare che in diversi casi questa teoria sia suffragata dai fatti, come la testimonianza di due poetesse del novecento, Amalia Rosselli morta suicida e Alda Merini ancora vivente, cui fu comune la triste esperienza del manicomio.
Io non sono molto convinta di questo, anche se ritengo che il disagio provato a contatto di una realtà che non piace favorisca sì il ripiegamento su se stessi, uno scavo di interiorità e la ricerca di altri valori che compensino questa sofferenza, ma crederei piuttosto il contrario e cioè che l’arte e la poesia siano piuttosto una cura, una valvola di salvezza nelle avversità della vita, abbiano cioè per i depressi e per le persone più sensibili e fragili quasi un valore terapeutico. Certo coloro che, nell’incalzare del quotidiano, ne reggono felicemente i ritmi, sono meno propensi alla riflessione e alla meditazione sui grandi temi dell’esistenza e forse non ne hanno neppure il tempo, ma che l’arte e la poesie siano quasi un privilegio dei depressi mi sembra un po’ una forzatura.
Una poetessa, invece, dalla lunga vita, scomparsa a 77 anni nel 1966 e che seppe superare prove e difficoltà con grande forza d’animo, fu la russa
Anna Achmatova
(1889- 1966). La sua produzione letteraria viene separata in due diverse maniere, come è stato diverso il suo modo di vivere negli anni della gioventù all’epoca degli Zar e in quelli successivi dello stalinismo.
Come un fiume io
- fui deviata. La durezza dei tempi
mutò della mia vita il corso.
In un alveo diverso
- di lato all’altro ora si è messa a scorrere.
E le mie rive io non conosco.
Solo dal contrasto si può valutare dolorosamente il senso della felicità e lei, da uno stato di paradiso, piombò nell’inferno. Da un tempo di agi, di cavalcate, di amori, di passeggiate in carrozza, di amici e viaggio, due anni dopo la rivoluzione del ’17 poco le restò della felicità possibile.
Sì, li ho amati, quei raduni notturni:
su un tavolo minuscolo bicchieri ghiacciati,
sopra il caffè un vapore sottile, profumato,
d’inverno il calore grave del camino arrossato,
l’allegria mordace dello scherzo letterario
Aveva rinunciato alla possibilità di salvarsi fuggendo a Parigi, ritenendo che un poeta non deve lasciare la sua patria e la sua lingua e tradire quelli che rimangono, ma debba piuttosto rinunciare ai privilegi e mettersi al livello del popolo che non può fuggire in massa. Anna Achmatova, che aveva sposato giovanissima uno dei più importanti poeti del tempo, Nicolaj Gumilëv, che fu fucilato come controrivoluzionario nel 1941 e con lui aveva vissuto un grande amore e un grande sodalizio letterario, visse in miseria a Mosca, San Pietroburgo e a Taskènt. Dopo la sua importantissima raccolta "Anno Domini" del 1921, tacque per venti anni per poi riprendere a scrivere, penetrando la nuova realtà sovietica. I più grandi poeti e amici se ne erano tragicamente andati, o uccisi o suicidati, e lei stessa, sebbene abbia cercato di essere sempre profondamente russa e abbia cercato di capire il nuovo stato di cose, viene sconfessata dal Comitato Centrale perché "il suo fondo rimane decadente, poco o nulla fruttifero per la fondazione di una nuova etica virile e costruttiva". Perché troppo considerata all’estero viene radiata dal Sindacato Scrittori e scansa i campi di lavoro solo per l’età avanzata. Nel 1966 viene in Italia per ritirare il Premio Taormina ed è la sua ultima gioia.
Una voce che irrompe forte e nuova dopo tanti versi letterari per cantare la quotidianità, la naturalezza, "i lineamenti immediati della vita" è quella di
Marina Cvetaeva
(1892-1941). Anch’essa russa, dalla vita travagliata, muore suicida dopo aver scritto versi bellissimi. La sua storia è una delle più tristi fra tutte le storie delle grandi poetesse finora citate. Figlia di un pope, filologo e critico d’arte e di una madre pianista presto deceduta, fu segnata da questo avvenimento e niente la distrasse da questa perdita, né viaggi, né amici, né lo studio pazzo e disordinato. Fu sempre angosciata dal senso della morte, dall’ansia del poeta nel folle tentativo di captare l’assoluto, di ricercare l’interlocutore ideale, che lei trovò in Rilke e Pasternak.
Ma i suoi contemporanei non la lessero e non la capirono, gli editori la rifiutarono, il potere politico la stritolò. La sua seconda bambina morì di denutrizione a quattro anni, mentre infuriava la guerra civile. Dopo questa tragedia anche il marito si ammalò di tubercolosi. Da allora cominciarono anni di peregrinazioni e fughe. Il marito, che aveva parteggiato per i "bianchi", fu coinvolto in un clamoroso caso politico-spionistico e fu fucilato, la figlia maggiore arrestata. Il figlio maschio morì in guerra nel ’41 e "la vita diventò quel luogo dove non si può vivere". Le forze se ne andavano, per la fame perdeva i capelli, si sfigurava, finchè vide una trave nel soffitto che fu il suo punto di arrivo a 49 anni. Fu sepolta in una fossa comune.
Scrisse liriche e versi e le famose nove lettere in prosa sull’amore, conosciute con il titolo "Le notti fiorentine". Di lei, così incompresa e disperata, ci piace ricordare questi versi.
Mondo, cerca di capire! Il poeta – nel sonno, scopre
la legge della stella e la formula del fiore.
E ancora altre voci femminili intense si rivelano in una panoramica che abbraccia almeno 20 donne dall’ottocento in poi. Oltre a quelle ora citate, vi sono la polacca Maria Krysinska, le francesi Anne de Noailles, Marie Noël, Louise de Vilmorin e Simone Weil, la tedesca Ingeborg Bachmann. Le lega un denominatore comune poiché l’amore, l’abbandono, l’esperienza del dolore e l’indignazione per l’ingiustizia sono l’elemento stesso della loro poesia.
Alcune si sono impegnate nel sociale, come la Desbordes-Valmore, la Negri e la Bachmann, altre si sono ripiegate in un lirismo soggettivo, ma nessuna si è sottratta ai grandi sentimenti, ai misteri dell’esistenza che accomunano tutti, uomini e donne.
Attualmente è più che mai importante il senso della poesia per sollevarci dal quotidiano, da una società piena di violenza, da una realtà colma di materialismo che forse non ci piace, nella quale o non ci ritroviamo o cerchiamo di orientarci con fatica.

E oggi sono numerose le donne che cercano di dare voce poetica ai loro sentimenti e che si affiancano agli uomini, come in ogni campo, non per insidiare loro quella supremazia che finora hanno sempre avuto, ma solo per condividere la gioia che la poesia dà in ogni momento, sempre e comunque.( articolo di M. Patrizia Bianchi Cecchini)

                                                                                                           


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