dolorante. «Non dirmi cara!», disse disperata. «Non è vero niente».
«Non è vero cosa?», chiese Berto dopo un momento.
«Il bambino! Non è vero che lo aspetto, come ti ha detto Ornella. L'ho
inventato. Ornella ne aspetta uno davvero, e allora io… io l'ho inventato».
«Bambino…», mormorò Berto come se non capisse niente. «Inventato…
perché?».
«Non lo so perché! Sì, lo so! Ero invidiosa del bambino di Ornella, ecco
perché. Invidiosa…».
Lentamente, Berto lasciò ricadere le braccia, e Giovanna tornò ad
affettare ciecamente l'arrosto. In silenzio Berto prese le rose e andò a cercare
un vaso. In silenzio mise l'acqua dentro il vaso e le rose dentro l'acqua. In
silenzio andò a portarle in salotto e tornò in cucina. Lei stava rimestando
tragicamente nella pentola della minestra.
«Giovanna», disse la voce di Berto, calma e triste, «Giovanna, non sei
proprio felice con me? Dico, anche senza bambini?».
Lei alzò gli occhi dorati, colmi di adorazione e di avvilimento. Non
capiva il senso della domanda. Capiva soltanto che Berto non era in collera:
era solo triste, e questo era molto peggio.
«Oh, Berto, ti prego, arrabbiati», supplicò. «Lo so che ti ho deluso in
tutto. Arrabbiati, picchiami, mandami via, ma non essere triste, per piacere!
Non posso sopportarlo!». Le tremava tutta la faccia.
Ci fu un breve, rarefatto silenzio. Lentamente, trattenendo il respiro,
Berto le si avvicinò, e lei riprese a girare il mestolo. Non poteva guardarlo.
«Lascia stare quella pentola!», disse Berto. Adesso sembrava arrabbiato.
«E guardami, accidenti a te!». Era arrabbiato.
Lei ne provò una specie di aspro, crudele sollievo. «Lo so che sono un
macello!», gridò buttando via il mestolo. «Lo so che sono un fallimento.
Non so fare niente di quello che ti piace, non so nuotare, non so ballare, non
so sciare, non so cucinare e non so neanche darti dei bambini! Sono solo una
mucca! Una stupida mucca che non sa fare i vitelli».
E allora accadde una cosa spaventosa: Berto scoppiò a ridere.
Fragorosamente, giocondamente, come se non riuscisse più a tenersi. «Oh
Dio, che scema», diceva soffocato. «Oh Dio, Dio, Dio, che scema!».
Aveva sopportato tante risate in vita sua, Giovanna. Ma questa no. Questa
la buttò giù a singhiozzare sul tavolo di cucina, con le braccia distese, come
una grossa bambina disperata. «Lo so che sono scema! Lo so che sono
ridicola! Qualsiasi cosa faccia, sono e sarò sempre ridicola! Una grassa e
ridicola mucca».
«Adesso basta!», disse Berto, Non rideva più. La prese per una spalla e la
scosse forte. «Guai a te se lo dici ancora. Guai a te se dici ancora mucca alla
mia ragazza».
«La tua rag… quale?», balbettò lei rialzandosi.
«Questa», lui disse. La prese tra le braccia e la strinse contro di sé, con la
sua ciccia e le sue lacrime, come se volesse stritolarla. «Questa qui. Non ne
ho mai avute altre, credo».
«Non… E Ornella?», lei chiese stupidamente,
«Per amor del cielo!», disse Berto inorridito. «Ornella! Chi ti ha detto che
mi piaceva Ornella?».
«N-non so. N-non le volevi bene?».
«Se le volevo bene la sposavo, no?», disse Berto. «Visto che non
aspettava altro. Ma io volevo bene a te, accidenti. E lei lo sapeva. Volevo
bene a te, dannato trepiedi, e cercavo in ogni modo di fartelo capire, ma tu
niente. Sembrava che te ne infischiassi. Non eri mai affettuosa, non dicevi
niente, stavi lì. Avevo un'orribile paura che non mi volessi. Per questo ho
tirato in ballo i bambini, e l'amore che sarebbe venuto in seguito: il tuo
amore. Il mio c'era già e l'avevi davanti al naso da qualcosa come dieci anni.
Ma tu niente. Tu giocavi coi ragazzini».
«Ero tanto grassa», lei disse, con le labbra che tremavano. «Ero tanto
ridicola…».
Lui le prese la faccia tra le mani per guardarla. «Ridicola!», disse.
«Perché sei timida e quieta e dolce, perché hai questi occhi da cerbiatta, e
questo sorriso che mi scioglie il cuore ogni volta che lo vedo? È questo che
chiami ridicolo? Ti sembra che io rida?».
per la prima volta qual era. Grassa e dolce e amata.
«Credo… credo che dovrei sedermi», disse.
Sempre tenendola tra le braccia, lui la guidò in salotto e sedette in
poltrona. Sempre tenendola tra le braccia. «Sai», disse, «Ornella non mi ha
mica detto niente. Non lo sai com'è fatta? Aveva troppo da fare a parlarmi
del suo, di bambino, per parlarmi del tuo».
«E le rose?», chiese Giovanna. Erano lì sul tavolo del salotto, gialle,
profumate e trionfanti. «E la… e la riconoscenza?»
«È difficile da spiegare», Berto disse. «Ma dopo essere stato cinque
minuti con Ornella e la sua parlantina e le sue cliniche e il povero caro
Lorenzo e i brillanti della defunta suocera, ho sentito il bisogno di portarti
delle rose. Non so perché. Credo per chiederti scusa per i bambini che ti
avevo promesso e che non venivano, e per tutti i bucati che fai e gli arrosti
che cuoci e i pavimenti che pulisci, mentre quella là che non vale un'unghia
di te ha due cameriere e una cuoca. Grrrr! L'avrei strozzata. E poi… E poi
grazie, volevo dirti: grazie per avermi sposato, grazie per essere quella che
sei». Le schiacciò la faccia contro la spalla e concluse sottovoce: «Il mio
piccolo, grasso, caro trepiedi».Lei chiuse gli occhi. Il Signore le aveva negato tutti quei piaceri per
concederle questo, unico e meraviglioso. Grazie, Signore. Non le riuscì di
dir niente. Poi sentì le labbra di Berto sulle ciglia bagnate, sulla guancia,
sulla bocca, e tutto quanto, i ricordi e gli affanni e il passato e il presente e il
futuro, tutto quanto si confuse nella sua testa come una girandola luminosa:
e fu come se in quel dolce, stordito minuto lei vivesse tutti in una volta i
tanti e tanti minuti, giorni e anni felici che non aveva goduto. Dieci anni in
un minuto sono tanti. Per forza le tremavano le ginocchia in quel modo.
Più tardi, stesa nel buio vicino a Berto a contemplare la sua nuova,
incantata felicità, pensava che un giorno forse avrebbe avuto una bambina e
che forse sarebbe stata molto grassa ed avrebbe avuto il complesso ed
avrebbe chiesto un mucchio di piaceri al Signore, e allora lei le avrebbe
raccontato la sua storia, così buffa e triste e bella.
La storia di una ragazza grassa, timida e amata. Grazie, Signore.
(Fine)
(Fine)
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