martedì 15 gennaio 2013

Storia di una ragazza grassa di Brunella Gasperini

  In memoria di  Brunella


Storia di una ragazza grassa

  racconto di Brunella Gasperini 
  Pubblicato nel volume di RACCONTI D' AMORE
allegato n. 33 di Annabella del 14/08/1982 (pp. 14 - 36)
 
 



«Nascerà in gennaio», disse Ornella. Si accese una sigaretta e buttò fuori
una breve, noncurante nuvola di fumo. Non sembrava una futura madre che
parla del suo futuro figlio. Sembrava un'indossatrice provetta che parla della
sua prossima sfilata. Assestò meglio nella poltrona il lungo corpo disinvolto,
e accavallò le gambe. Lunghe, agili e disinvolte anche quelle. «Lorenzo,
povero caro, è pazzo di gioia».
Spiaccicata nella poltrona di fronte, grassa e sudata, Giovanna si sentiva
più che mai simile a una giovane mucca infelice.
Ornella buttò fuori un'altra nuvola. «Io preferirei un maschio; tanto meno
impegnativo, trovo. Ma Lorenzo, povero caro, vorrebbe una femmina,
perché fosse proprio uguale a me».
Nella testa depressa di Giovanna guizzò la visione di una neonata
lunghissima e agilissima, che accavallava le gambe e fumava, emettendo
rapidi e disinvolti uè uè.
“Sei maligna, Giovanna”, si disse.

“Sei
invidiosa”. I suoi grandi languidi
occhi dorati, pieni di timidezza, d'umorismo e di malinconia, presero
un'espressione spaventata e supplichevole. “Signore, fa' che non misucceda”, pregò. “Grassa, goffa, incapace, ma non invidiosa. Per piacere,Signore”.



Non aveva mai invidiato Ornella. L'aveva solo umilmente e
accoratamente ammirata, proprio come umilmente e accoratamente aveva
amato Berto, fin dall'adolescenza.
Non era stata un'adolescenza molto felice.
Giovanna era una ragazzina molto timida, molto tranquilla e assolutamente
priva di fiducia in se stessa, dato che nessuno le aveva mai dato motivo di
averne: non aveva mai conosciuto sua madre, che era morta mettendola al
mondo, e suo padre era un uomo abbastanza ricco, abbastanza buono e
molto occupato, che le voleva anche bene a modo suo, ma non era mai
riuscito a perdonarle del tutto due cose: prima, di aver causato con la propria
nascita la morte della bella, giovane, gaia moglie che aveva adorato; poi di
essere grassa, lenta e taciturna mentre sua madre era stata snella, impulsiva e
vivace. La casa era piena di fotografie della mamma, e Giovanna, quando
suo padre era fuori, passava delle ore a guardarle, pregando
appassionatamente tra sé:
“Signore, fammi dimagrire; Signore, fammi
diventare svelta e vivace; Signore, fa' che il papà possa essere orgoglioso di
me. Per piacere, Signore”. Invece diventava più grassa, e più mortificata di
esserlo, e di conseguenza sempre più goffa, schiva e taciturna. E suo padre
era sempre meno orgoglioso di lei. “Questa ragazza è apatica”, diceva,
sfogandosi con le zie, che erano tutte snelle e vivaci anche loro. “Forse sarà
per via di tutta quella ciccia che la ricopre, non so, ma non sente niente. Non
è mai espansiva, non dice mai niente, sta lì”. E lei diventava sempre meno
espansiva, stava sempre più lì.
Ma sarebbe andata nel fuoco per suo padre.
D'estate, il papà la mandava da una zia zitella che aveva una villetta su
una piccola spiaggia del mar Ligure, e da quando, su quella spiaggia,
Giovanna aveva conosciuto Berto, la sua vita era totalmente cambiata. Se in
meglio o in peggio, non avrebbe saputo dirlo. Berto era l'unica persona che
fosse mai stata veramente gentile con lei; l'unica persona che mostrasse di
godere veramente della sua compagnia, così com'era. E questo la riempiva di
una lancinante gratitudine, ma anche di lancinanti sofferenze. Perché è
terribile, quando si è una ridicola cicciona, amare un ragazzo che non è solo
meravigliosamente buono, ma anche meravigliosamente alto e snello. Berto
aveva tanta pazienza con lei, passava delle ore a farle compagnia, le aveva
presentato tutti i suoi amici e tutte le sue amiche:
vivaci e disinvolte ragazzine milanesi, molto diverse da lei che era sempre vissuta in provincia.
Specialmente Ornella: Ornella che era sottile, brillante e loquace; Ornella
che nuotava come un pesce, correva come una freccia, ballava come una
silfide, sempre la prima in ogni gioco, in ogni festa. E sempre vicina a Berto.
«Comunque», stava dicendo adesso Ornella, «maschio o femmina non mi
fa differenza. Gli orecchini di brillanti della mia defunta suocera mi spettano
in ogni caso».
E adesso nella testa di Giovanna la neonata agilissima e fumatrice si
adornava di due orecchini di brillanti grossi come tazze. Giovanna temette di
mettersi a ridere stupidamente. “Sto diventando isterica. Signore, per
piacere, non isterica”. Ornella continuava a parlare velocemente: maschio,
femmina, clinica modello, parto indolore, brillanti e defunte suocere, tutto
mescolato. Ecco a che cosa si riduceva, per Ornella, l'attesa di un figlio:
quella che per lei, Giovanna, era preghiera e umiltà e affanno e disperazione,
da un anno intero. Non era giusto. Non era proprio giusto, ecco. Per Ornella
era sempre stato tutto facile, mentre per lei…
La faccia di Ornella e la neonata con gli orecchini, il salottino e le tazze
del tè scomparvero, e davanti agli occhi appannati di Giovanna ci fu una
vecchia spiaggia del mar Ligure, e una Giovanna di quattordici anni, grassa,
lucida e spelacchiata (non diventava mai nera, ma solo terribilmente
spelacchiata), seduta in mare con un'aria circospetta.
«Ma guardatela!», diceva Berto. «Questa ha preso il mare per una
bagnarola. Avanti, trepiedi, vieni qui che ti insegno».
Le aveva insegnato anche il giorno prima. Lei aveva ascoltato avidamente
i suoi consigli (“Signore, fa' che impari, per piacere”), aveva osservato il
movimento delle sue gambe e delle sue braccia, e aveva coscienziosamente
tentato di imitarlo, ma appena s'era trovata l'acqua sotto il mento, per
qualche ignota ragione si era trasformata in un goffo fagotto starnazzante e
stralunato, che sbatteva grasse gambe e grasse braccia dappertutto,
ingurgitando ettolitri d'acqua salata.
«Cielo!», diceva Ornella, piegata in due dal ridere. «Sembra una foca col
mal di mare».
Erano tutti piegati in due dal ridere. E anche lei, quando aveva finito di
gorgogliare e di tossire ed era riuscita a capire dove fossero i suoi piedi e
dove la sua testa, aveva riso.


Sono una foca», aveva detto placidamente.

«Col mal di mare». E placidamente con tutta la sua ciccia e la sua voglia di
vomitare e di piangere, era tornata in secco. Sempre sorridendo. Ma dopo, a
casa! Buttata sul letto, con le braccia intorno al cuscino inzuppato di lacrime,
aveva sentito il campanile vicino suonare tante e tante ore crudeli. “Signore,
perché mi hai fatto grassa…”.

E adesso Berto voleva ricominciare le lezioni. «Su, vieni. Ti tengo su io,
non aver paura».

Non aveva paura. A diciassette anni, Berto era il miglior nuotatore della
spiaggia, oltre che il ragazzo più forte e più bello del mondo. Per fargli
piacere lei si sentiva pronta a traversare l'Atlantico, e anche ad affogare, ma
non poteva rendersi di nuovo ridicola di fronte a lui.
 Questo proprio non poteva farlo.Sto tanto bene così», gli disse, muovendo appena l'acqua intorno ai fianchi.



«Dai, Berto: lasciala perdere e vieni!», chiamava Ornella.
«Vuoi dire che non t'importa di imparare a nuotare?», chiese Berto. «Ci
divertiremmo, insieme».
Era buono… Era buono e gentile e aveva pietà di lei, e lei non voleva.
Aggrappandosi con le unghie e coi denti al suo sconsolato orgoglio di
cicciona quattordicenne, Giovanna sorrise: «Grazie, Berto», disse. «Ma io
mi diverto di più qui, in mezzo ai bambini piccoli. Per me il mare è una
bagnarola».
Senza più insistere, Berto si allontanò con Ornella verso il largo, e
Giovanna continuò a fare cif cif coi bambini. Senza mai alzare la testa.


 
Il quadro si dissolse e fu sostituito da un altro: una rotonda, un
grammofono, e una Giovanna di diciassette anni, sempre grassa, sempre
lucida e sempre spelacchiata, seduta in un angolo a raccontare una storia al
bambino del barista, intanto che gli altri ballavano. Tra gli altri c'erano anche
Berto e Ornella, e ballavano quasi sempre insieme.
«Non vuoi riprovare, Giovanna?», chiese ancora una volta Berto,
passandole vicino. «Mi piacerebbe proprio che imparassi»
Anche a lei sarebbe piaciuto. Stare tra le braccia di Berto, sia pure
soltanto per ballare, rappresentava il più audace, meraviglioso e crudele di
tutti i suoi sogni. E così, il giorno prima ci aveva provato. Si augurava
soltanto di riuscire a dimenticarlo presto. Ma i piedi di Berto non se ne
sarebbero dimenticati mai. Il sogno audace e meraviglioso s'era tradotto in
un macello di pestoni, di sudore, di bofonchiamenti e di panico.
Non aveva
orecchio, non sentiva il tempo, non sentiva niente: il suo corpo era una
massa di gelatina terrorizzata e ogni singola gamba s'era trasformata in un
carro armato senza pilota. «Cielo!», gridava Ornella sopra le risate
apocalittiche degli altri. «Sembra una paralitica che ha mangiato troppo».
Come sempre, lei aveva riso, la sua pigra, placida risata. E come sempre, a
casa aveva abbracciato il cuscino e desiderato di essere morta. Grassa,
ridicola e morta.
Mai più, per niente al mondo, avrebbe voluto riprovare a ballare con
Berto. «No, grazie», gli disse, «Si fa troppa fatica. Si suda troppo. E poi non
ci provo nessun gusto. Preferisco raccontare le storie a Baciccin».
Berto ricominciò a ballare con Ornella, e tutti si voltavano a guardarli. Il
leggero, duttile corpo di Ornella sembrava fatto apposta per ballare. E per
stare tra le braccia di Berto.
Distogliendo lo sguardo, Giovanna ricominciò a raccontare: «E allora il
lupo, che era un furbacchione, disse al Gobin-Gobetto…». Persino sull'avida
faccetta in ascolto di Baciccin adesso le pareva di vedersi riflessa, così come
sentiva di essere: orribilmente grassa, orribilmente goffa, orribilmente
infelice.
Baciccin e la rotonda scomparvero, e un'altra scena si mise a fuoco: una
discesa coperta di neve e una Giovanna infagottata in un enorme costume da
sci color can-che-scappa, ferma in cima a guardare Ornella e Berto che
saettavano giù a zig-zag. Arrivati in fondo si fermarono con un cristiania
impressionante.
«Dai, vieni giù!», gridò Ornella, snella e decorativa nel suo attillato
costumino azzurro. «Piegati in avanti e giù».
Con una espressione accanita sulla faccia (“Signore, fammi arrivare in
fondo, per piacere”), Giovanna si piegò in avanti.
Il Signore la fece arrivare in fondo. Come un barile. Seminando intorno
bastoncini, sci, guanti, berretto e terrore.
«La valanga!», gridavano dal basso. «Si salvi chi può!»
Berto riuscì a fermarla. Ma ci vollero quattro persone per rimetterla in
piedi, lei e i suoi ottanta chili e tutta la neve che aveva in testa, negli occhi,
in bocca e nelle tasche.
«Avanti, torniamo su, trepiedi», disse Berto. «La prossima discesa la farai
con me».
Ma, prima di rifare la discesa, bisognava fare la salita. E far andare in
salita una valanga non è un'impresa da poco. Ci vollero due persone a tirarla,
due a spingerla (“e-hop! e-hop!”), altre due a raccogliere quello che
seminava di dietro, e circa mezz'ora di tempo. «Cielo!», trillava Ornella
guizzando intorno tra artistiche nuvolette di neve. «Pare un ippopotamo che
scala il K2».
«E adesso», disse Berto quando l'ippopotamo esausto fu scodellato in
cima al K2, «stammi bene a sentire. Metti gli sci in questo modo, e…»
«No, grazie», disse l'ippopotamo. «Ne ho abbastanza».
«Ma non vuoi imparare? Provaci. Per farmi un piacere, Gio».
Per fargli un piacere lei si sarebbe buttata a capofitto in un burrone. Ma
non poteva fare l'ippopotamo davanti a lui. «No, davvero, Berto», disse. «Su
e giù, su e giù, chi me lo fa fare? Gli sport invernali non sono fatti per me.
Toglietemi questi cosi dai piedi, per piacere. Vado a fare i pupazzi di neve
coi ragazzini».
I pupazzi di neve e le sue lacrime ringoiate svanirono per lasciare di
nuovo il posto alla vecchia spiaggia, e a una Giovanna di ventun anni seduta
sulla scogliera bassa vicino a Berto che pescava. Era un tramonto d'agosto
rosso e lento, ed era la vigilia della partenza di Berto. Non era più uno
studente, ormai, faceva l'ingegnere in una piccola industria, e le sue vacanze
si riducevano a due misere settimane. Il cuore di Giovanna era gonfio e
pesante, per le solite vecchie ragioni e per un'altra recente, incredibile
ragione: Ornella si era improvvisamente fidanzata con Lorenzo Rosselli.
Essere amata da Berto e preferirgli un tipo anemico e sdolcinato come
Lorenzo! “La vita è cattiva”, pensava Giovanna guardando l'ultimo
barbaglio di sole che non si decideva a inabissarsi. “La vita è stupida e
ingiusta”. Il barbaglio scomparve, e Giovanna si voltò di nuovo a guardare
Berto di sottecchi. Aveva un'aria così grave e concentrata… Il cuore di
Giovanna si riempì di tenerezza e di dolore. Se avesse almeno potuto
consolarlo… Ma una cicciona non può consolare nessuno.
«Giovanna», disse in quel momento Berto, senza voltarsi. Sembrava uno
che sta per buttarsi dal settimo piano. «Giovanna, io… Vorresti sposarmi?»
«Spo-sposarti?», esalò Giovanna, in crescendo
«Non è una brutta parola», disse Berto. «Tanti lo fanno. Anche persone
per bene». Cercava di scherzare, ma si capiva che non ne aveva voglia.
«Come deve soffrire!», pensò Giovanna. «Come deve amarla, se per
averla perduta pensa di sposare una come me». Era buono, era affezionato,
era infelice, ed aveva pietà di lei. Ma questo non bastava per legarsi tutta la
vita a una cicciona.
«Io penso», gli disse sottovoce, «che si dovrebbe sposarsi solo per
amore».
Berto non rispose subito. Cambiò l'esca alla lenza, e aveva una faccia
ancora più triste. «L'amore può venire in seguito», disse infine, sempre senza
guardarla.
Lei scosse la testa. «Sai bene di no», disse con dolore.
Berto inghiottì. «Ma non c'è solo l'amore», disse in fretta. «Ci sono altre
cose. I bambini, per esempio…»
I bambini. Questa era l'unica cosa che avevano in comune: l'amore per i
bambini. Certo lui pensava che essendo così grassa e placida, gliene avrebbe
fatti un mucchio. Che romantica proposta di matrimonio. “Signore”, pregò
Giovanna, “aiutami a dirgli di no. Per piacere, aiutami, Signore”. Ma non
riusciva a parlare.
Allora Berto si voltò e le mise una mano sul braccio. «Ti prego…
Staremo bene insieme, vedrai. Io… Ti prego, Gio».
Era lì, bello, grande e meraviglioso, e la pregava di sposarlo. Solo perché
le era affezionato, solo perché voleva dei bambini, e perché quella che lui
amava sposava un altro… Ma la pregava. “O infine”, le suggerì il suo
malinconico umorismo, “amore o non amore ti sposa, no? Cosa pretendi,
cicciona?”. Avrebbe potuto stargli sempre vicina… Sentire la sua voce e
vedere i suoi cari occhi marrone e forse tenergli la mano quando dormiva, e
respirare l'aria che lui respirava, sempre. La tentazione era troppo forte e
abbagliante per il suo cuore gonfio e assetato. Non aveva mai avuto tanta
voglia di piangere, ma invece sorrise.
«Va bene, Berto», disse. «Avremo un sacco di bambini. Spero che non
diventeranno tanto grassi».
Così l'aveva sposato. Da più di un anno. E l'aveva deluso, in tutto.
Berto aveva il diritto di aspettarsi che lei, essendo una grassa ragazza di
provincia, fosse una brava massaia, oltre che una madre prolifica. Ma in casa
del padre di Giovanna c'era sempre stata una governante bravissima e
gelosissima dei mestieri suoi, che non le aveva mai insegnato niente.
Neanche a cucinare un uovo. “Signore, fa' che diventi una brava massaia”,
pregava Giovanna nei primi tempi di matrimonio. “Signore, per piacere”.
Ma l'ansia di essere brava e il terrore di non esserlo rendevano tutto
spaventosamente difficile.
«I pavimenti, cara?», diceva Ornella, che intanto si era sposata anche lei e
veniva a trovarla circa una volta al mese. «Metti giù la cera con uno straccio,
ci passi sopra lo spazzolone, e il pavimento è uno specchio». A Giovanna
non veniva mai fuori uno specchio, ma una carta geografica appiccicosa.
«Il bucato, tesoro?», diceva Ornella. «Prendi uno di quegli affarini in
polvere che lavano da soli, lo sciogli nell'acqua calda, ci metti dentro le
camicie, e ti vengono fuori più bianche del bianco. Lo dicono anche al
cinema». Ma con Giovanna quegli affarini in polvere si rifiutavano di lavare
da soli: e le camicie di Berto, quando uscivano dalla tinozza, non erano
bianche più del bianco, ma striate come zebre.
«Il macellaio non ti serve bene?», diceva Ornella. «E tu tiragli la carne in
testa, è semplice». Quando il macellaio le dava degli indefinibili grovigli di
nervi, grasso e polpa itterica, Giovanna diceva timidamente: «Scusi, non è
un po' mista, forse?» «Mista!», diceva il macellaio, guardandola con
profondo e oltraggiato compatimento. «Le do il pezzetto più bello di tutto il
mio bue, privandone le mie migliori clienti, e lei dice che è misto! Vada
vada che l'ho servita fin troppo bene, cara la mia sposona». «Grazie», diceva
la sposona prendendo il groviglio. «Scusi tanto, signore».
«Cucinare, cara?», diceva Ornella. «Prenditi un manuale, no? Di leggere
sarai capace, tesoro! O forse no?». Il manuale l'aveva, e leggere sapeva. Ma
per qualche ignota ragione, sebbene lei supplicasse ogni volta il manuale, le
pentole e il Signore di aiutarla, le sue pietanze non assomigliavano mai alle
illustrazioni del libro, ma piuttosto ai risultati di un'esplosione atomica.
Berto mangiava lo stesso, e voracemente, ma lei si sentiva la più disastrosa e
avvilita moglie della terra.
Berto era buono, e non si lamentava mai. Ma lei vedeva bene che ogni
tanto aveva l'aria triste, e si sentiva orribilmente colpevole. “Signore, fammi
avere un bambino!”, implorava appena si svegliava, e prima di
addormentarsi, e mentre lottava con le pentole e i pavimenti e il bucato, e
sempre. “Signore, fammi avere un bambino! Per piacere, Signore”. Niente.
Ogni mese andava dall'ostetrico, invano. Berto l'accompagnava e aveva l'aria
sempre più triste. “L'ho deluso in tutto”, pensava lei oppressa. “Sono una
palla legata al suo piede. Una palla grassa e sterile”. Cercava di non dargli
fastidio, di lasciarlo uscire sempre solo, di parlare e muoversi il meno
possibile; ma ogni tanto la faccia di Berto le ricordava quella di suo padre
quando diceva: “Questa ragazza è apatica. Non sente niente, non dice niente,
sta lì”. Lei sarebbe andata mille volte nel fuoco per Berto. Ma non sarebbe
servito. Serviva dargli un figlio, e quello non veniva.
«E tu, tesoro?». La voce di Ornella la tirò fuori dai suoi ricordi e dalle sue
cupe meditazioni. Sicuro, era qui seduta in salotto, davanti a lei c'era
Ornella, e Ornella diceva: «E tu, tesoro? Niente novità? Come mai? Berto
voleva uno sterminio di bambini. Cos'è, ha cambiato idea? O c'è qualche
cosa che non va, forse?». Soffiò in alto una nuvola di fumo, e in quella
nuvoletta parve a Giovanna di veder salire i riposti pensieri di Ornella, scritti
in caratteri gotici: “Quel povero Berto”, diceva il fumetto. “Guarda che fine
ha fatto, perché io non l'ho voluto. E tu non ti vergogni di aver approfittato
di un momento di sconforto, cicciona? Non ti vergogni, foca, paralitica,
valanga e ippopotamo? Non sai fare niente di quello che gli piace, non sai
nuotare, non sai ballare, non sai cucinare, non sai fare bambini, non ti
vergogni? Non lo vedi che sembri una mucca? E chiedo scusa alle mucche.
Quelle, almeno, sanno fare i vitelli”.
Il fumetto si disperse e Giovanna sentì che dentro di lei stava succedendo
qualcosa. Anni di umiliazioni e di patemi, anni di solitudine e di lacrime
ringoiate stavano venendo su dentro di lei, schiumando e fermentando.
Venivano su, su, su… e il tappo stava per saltare.
“Signore, ferma il tappo!”,pregò atterrita.
 “Signore, fermalo, per piacere!”. E mentre lo pensava, il
tappo era già saltato, e lei sentiva la propria voce, squillante, disinvolta,
assolutamente irriconoscibile, che diceva: «Anzi, va tutto
meravigliosamente! Berto è così caro e appassionato e pieno di premure…
Andiamo sempre a ballare, non te l'ho detto? Però mangiamo sempre a casa
perché Berto dice che in nessun ristorante sanno cucinare bene come me. E
aspetto anch'io un bambino, naturalmente! Non te l'ho detto? Nascerà prima
del tuo». Attraverso una specie di pazza nebbiolina vedeva la faccia
sbalordita di Ornella, e non poteva più fermarsi. Come un fiume quando si
rompe una diga. «Anch'io preferirei un maschio, ma Berto dice che
preferisce una bambina perché possa assomigliarmi come una goccia di
acqua in tutto, e io dico…». E avanti, come l'alluvione del Polesine.
Lei che era timida e schiva e stava sempre zitta.
Parlò ininterrottamente per un quarto d'ora;
come avrebbero chiamato il maschio, e come avrebbero
chiamato la femmina, e la culla col carillon che avrebbero preso, e quello
che diceva l'ostetrico, e quello che diceva lei; e le voglie che aveva, e forse
sarebbero stati due gemelli, e allora…
Appena si interruppe per rifiatare, Ornella si congedò.
Tutta sorrisi, complimenti e «che bellezza, tesoro»,
 ma con le narici che tremavano dal dispetto.
Appena la porta si fu chiusa alle sue spalle, il fiume in piena rientrò negli
argini, e Giovanna rientrò in se stessa, all'esaltazione e alla falsa euforia
subentrò un agghiacciato sbalordimento. “Sono impazzita. Anche pazza
dovevo diventare, adesso”. Si avvicinò alla finestra e appoggiò la fronte ai
vetri, cercando di non piangere. Doveva preparare il pranzo, altro che
piangere. Tra poco Berto sarebbe tornato e… Eccolo là! Era sceso in quel
momento dal tram, e adesso stava traversando il piazzale verso casa. Proprio
mentre Ornella, uscendo, lo traversava in senso inverso. «Oh, no!», gemette
Giovanna, chiudendo gli occhi.
Quando li riaprì, Ornella e Berto s'erano già visti e salutati, e lui la stava
accompagnando dall'altra parte della piazza, verso il posteggio dei tassì. E
adesso Ornella glielo avrebbe detto. Giovanna tornò a chiudere gli occhi,
stringendoli forte. “Signore! Fa' che non glielo dica. Per piacere!”
Il fatto era che gli aveva chiesto troppi piaceri, al Signore. Per piacere
fammi dimagrire; per piacere, fammi stare a galla; per piacere, fammi sentire
il tempo; per piacere, fammi riuscire l'arrosto; per piacere, fammi avere un
bambino; per piacere, ferma il tappo… Troppi piaceri. Non sapeva più dove
mettere le mani, povero Signore. E lei cos'era, per meritare tanti piaceri?
Niente. Solo una goffa, inutile grassona, che adesso era anche invidiosa e
pazza e inventava bambini. Che cos'avrebbe detto Berto? Sarebbe tornato
tutto contento e lei avrebbe dovuto dirgli…


La pasta era quasi cotta, e lei stava miseramente affettando un arrosto
bruciacchiato e caparbio, quando Berto rientrò, e venne a fermarsi sulla
soglia della cucina. Aveva un enorme mazzo di rose in mano.
Oh, Dio, le rose! Le rose per il bambino inventato: il Signore le aveva
negato l'ultimo piacere. Giovanna rimase muta e ferma, col trinciante in
mano, e fu lui a venirle vicino. Posò le rose e la prese tra le braccia.
«Cara», disse sottovoce, schiacciandole la guancia sui capelli. «Io… io ti
sono tanto riconoscente, cara».... (fine 1a parte )







 
 

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